Una luce bianca, un infinito che ci invade. Nostalgia, maledetta nostalgia. Maledette lacrime. Maledetto anche quel giorno in cui uno strano mistero ci attirò in Lost. Non può finire così. Tutto così perfetto eppure così straziante. Perché? Perché, deve finire così? Che senso ha questo vuoto che ci assale e ci distrugge dal didentro? Siamo soli, siamo persi. E insieme siamo felici, ridiamo e piangiamo, diciamo addio e ci sentiamo liberi. Liberi, liberi. Liberi ma leggeri. Dannatamente leggeri come una piuma che un sottile vento spinge sempre più su, sempre più in alto, in un lirismo che ci invade.
Il finale di Lost ci assale. È una sensazione che ci inghiotte e ci fa sprofondare nella luce e nel buio.
Perché non ci sentiamo più noi. Usciamo dalla nostra individualità e ci scopriamo parte di un tutto. Non c’è più rabbia, non c’è più angoscia, non c’è più dolore. Solo felicità e nostalgia. Malinconia e amore. Perdita e incontro. È come se per una vita, per un’intera vita, avessimo cercato l’essenza di tutto, l’irriducibile fulcro e il perché di ogni cosa e ora ci trovassimo davanti al cuore pulsante dell’esistenza. Il (non) senso di gioia e dolore, amore e tradimento, follia e ragione, fede e insensibilità. Ci siamo dannati, abbiamo bestemmiato al mondo la nostra rabbia, abbiamo gridato in nome di quel perché. Perché. Per cosa? Tutto questo, per cosa?
La spiegazione, cari lettori, la tremenda e concretissima spiegazione è in un “Oh”. In quell’ “oh” che dentro di noi abbiamo sentito quando le porte si sono aperte e tutto si è concluso. Quando il ciclo di una vita, dall’occhio che si apre al mondo a quello stesso occhio che si chiude, è terminato. In mezzo c’è stato tanto. C’è stato amore e odio, fede e ragione, rabbia e delusione. Errori e decisioni drammatiche. Ma ora tutto è alle spalle. Vive, in un certo senso. Continua a vivere ma è quasi come se fosse non più rilevante. Trascurabile di fronte all’infinito.
Per capire il finale di Lost bisognerebbe capire l’infinito.
Immaginatevi per un momento, per un attimo solo, in un mare. Chiudete gli occhi, ora. Lasciatevi trasportare da quel mare. Siete parte di un tutto che può inghiottirvi da un momento all’altro. Potete scomparire in tanta immensità. Siete apparentemente insignificanti. Un granello, una meteora in un universo carico di stelle e pianeti. Siamo nulla, eppure siamo qualcosa. Esistiamo, viviamo. E nella nostra apparente insignificanza contiamo. Appare un paradosso. Eppure se in un bianco infinito inseriamo un puntino nero, quel bianco non sarà più lo stesso. Se muoviamo un dito, se anche solo pronunciamo una parola, quel dito, quella parola avranno inciso sull’intero universo. È il Logos divino, il Big Bang, il cosmogonico inizio.
Lost nasce da lì. Da quell’insignificante occhio che si apre, da quell’esplosione che espande un universo fermo, immobile. Jacob dà la vita. Sembrava non poterci essere altro se non la deriva. Una vita, un intero cosmo alla deriva, chiuso in un granello, incapace di produrre qualcosa. Ma quel granello è un seme e dal seme è nata ogni cosa. Dal più insignificante chicco la più varia, complessa, incredibile, drammatica esistenza. Tutto da una scintilla. Una scintilla che diventa boato, esplosione, apparente distruzione. Perché il seme deve morire per generare la vita.
Eccolo il mistero del mondo! Perché tutto accada, tutto deve morire. Ecco il senso del male, l’inestinguibile distruttore nel tempo. Non c’è male senza tempo, non c’è esistenza senza male e tempo. Aver fede allora significa accettare che la vita abbia bisogno del male. Non accettare quel male, ma accettarne l’esistenza. Non assecondare il male ma imparare a capirne il senso. Gridare, lottare e vincere il male.
Non in questo mondo, non qui. Non nel tempo della vita. Dove il male non finirà mai ma là in quell’Oltre che è eternità, assenza di tempo e vittoria sull’orrore.
Il male è necessario alla vita ed è necessario all’uomo. In Lost Jack da quel male nasce. Nasce dal senso di smarrimento della sua esistenza. Dai dolori e dai rimpianti. E in quel male vive e sopravvive. Contro quel male lotta e si riscopre forte. Lo fa grazie agli altri per “vivere insieme” e “non morire da soli”. Quel granello ha generato la vita ma la vita è ferma se non c’è un Altro. Tutto diventa autoreferenziale, arido e freddo se a un ‘me’ non controbatte un ‘te’. Ecco allora Kate e Saywer, Hugo e Jin e tutti gli altri Losties. Altre anime perse ma sopravvissute. Anime che sono rinate da quell’esplosione, che hanno avuto una seconda opportunità nel tempo della vita.
C’è chi l’ha sfruttata, chi no. Ma tutti hanno condiviso qualcosa. Quel qualcosa è un’esperienza unica e irripetibile. Nell’infinito ed eterno susseguirsi del tempo quel momento, quell’infinitesimale secondo su miliardi di millenni ha rappresentato qualcosa. Un’unicità. Ha rappresentato seppur per un attimo un sentimento autentico che tutti i personaggi di Lost hanno provato. In quel sentimento, in quello sparuto attimo di eternità, hanno costruito se stessi. In nome di quella sensazione appena afferrata hanno deciso di non voler sprofondare nell’eternità della morte.
La morte non l’ha vinta perché tutti si sono ritrovati in un mondo nuovo.
Quel mondo rappresentava aspirazioni mancate, desideri inespressi, felicità apparente. Rappresentava un eterno andirivieni di paure ed errori. E da quel ciclico ripetersi non ci sarebbe stato scampo. Tutto sarebbe rimasto lì. Una vita intera prigioniera di un mondo falso, di un limbo senza scampo. Ma lo scampo c’è perché in quella falsità, tutti i Losties hanno inserito (e percepito) qualcosa di autentico.
L’autenticità dell’amore, del sentimento per il quale si sono battuti e sono morti. Nell’amore, nel bacio, nell’abbraccio hanno ripreso coscienza di sé. Hanno scoperto la verità. Hanno superato il trauma della morte e riconquistato memoria della loro vera vita. Tutto nella scintilla cosmogonica di un bacio e di una carezza, del sottile, magico incontro di due labbra. Del tocco di due mani. Come Dio tocca l’uomo nella michelangiolesca Creazione di Adamo così l’uomo supera la distanza che lo separa dall’Altro attraverso il contatto e nel farlo riscopre se stesso. Ecco l’amore.
Lost ci parla di amore, ci racconta la storia dell’uomo.
Di quel Jack-Adamo che rinnega Dio e si rifugia nell’arida ragione. Ma che alla fine si scopre meditabondo vicino a un faro e raggiunge la finale sintesi tra i due estremi. E nella sua conclusiva gioia c’è la certezza di chi ha scoperto l’autenticità dell’esistenza. L’alt-reality diventa così il luogo sospeso nell’eternità in cui ritrovarsi. Chi prima, chi poi tutti i Losties vanno in contro alla morte. “Tutti muoiono prima o poi”, ci ricorda Christian. Alcuni lo faranno dopo aver abbandonato l’isola. Dopo una vita forse serena e una vecchiaia tranquilla. Altri molto prima. Ma tutti, tutti hanno la spinta per non perdersi nella morte.
Superare quello stacco tremendo, quell’ennesimo collasso dell’universo di una vita, e “farsene una ragione”. Accettare la morte. Accettare il male finale. L’alt reality è “il posto che voi avete creato tutti insieme per potervi ritrovare. La parte più importante della tua vita è stata quella che hai trascorso con queste persone. Ecco perché vi ritrovate tutti qui. Nessuno muore da solo, Jack. Tu avevi bisogno di loro e loro di te”. In questa realtà eterea ed eterna l’amore è sopravvissuto e ha teso ogni personaggio verso la vita. Una nuova vita. Una vita che sta in un “andare avanti”.
Ancora una volta, un’ultima volta la fine e l’inizio.
L’occhio che si apre in un nuovo mondo e si chiude nel precedente. Una realtà che sparisce e un nuovo universo che si espande. La morte e la nuova vita. La rinascita nell’amore. Quando quelle porte si aprono, quando la luce invade e divora ogni cosa, i protagonisti di Lost sono pronti per andare avanti. Per morire nel passato e lanciarsi nel buio splendente di un futuro oltremondano.
Non possiamo sapere cosa ci sia al di là, quando l’ultimo seme si schiude e muore per una nuova vita. Lost non ce lo può dire. Non possiamo guardare così oltre. Ma possiamo intuire, possiamo percepire distintamente che troveranno e troveremo un’emozione. Quella stessa emozione che ha generato la vita per la prima volta e la rinnova ora per l’ultima. L’amore.