Non ci sarebbe mai capitato che con luoghi ed epoche ben definiti, ci ritrovassimo a vivere un’esperienza vertiginosa;
esperienza capace di farci sentire spaesati, “dispersi”, con un unico punto fermo rappresentato dalla soggettività dei personaggi nei quali trasmigrare a seconda della situazione, per poter assorbire tutta l’emotività che questi hanno, singolarmente e non, da offrire; mai, se non fosse esistito Lost.
Una mitologia che vuole sconfinare ogni concetto primario, e per farlo confina questi in sistemi convenzionali e sensibili.
Un’antinomia fertile, come quella di voler superare il concetto di luogo circoscrivendoci in un’isola tropicale “deserta”. O di porre ogni singolo personaggio nella condizione di
“ritrovare” se stesso in una situazione che li vede “dispersi” su un’isola deserta.
Ognuno è esattamente dove dovrebbe e vorrebbe essere, da un certo punto in poi, pur non avendolo mai chiesto e non avendo mai saputo di volerlo.
Una premessa di per se commovente, quella che costruisce l’intera mitologia.
Come commoventi sono le vicissitudini che muovono verso la costruzione di questa gigantesca metafora che è Lost.
1. “Non dirmi quello che non posso fare”
John Locke è un uomo di fede. Il suo essere è perennemente sospeso nell’aulica convinzione che qualcosa può succedere, ed il continuare a crederlo genera le condizioni perché ciò accada davvero.
Questa è una delle primissime scene chiave della serie. Sarà impossibile dimenticare l’impotenza di Locke racchiusa nelle braccia che muovono impetuosamente una carrozzina, nel tentativo di farsi sentire mentre urla: “Non dirmi quello che non posso fare”.
E’ la prima puntata a lui dedicata ed introduttiva di un personaggio che nelle prime battute vediamo seduto sulla sabbia, attonito, che muove i piedi sorpreso dalla risposta motoria delle sue gambe, mentre attorno a lui si libera l’apocalisse.
E’ tutto ciò che vediamo prima di finire catapultati nel passato di John e scoprire che quest’ultimo è paraplegico, ed ama le escursioni.
Si scoprirà essere mosso da motivazioni che precedono il semplice attaccamento alle proprie passioni. Vuol dimostrare di poter fare tutto, con lo scopo di far capire a chiunque di poter fare altrettanto.
John urla alla guida di un’agenzia di escursioni che la sua esclusione dal programma è ingiusta. Supplica di essere messo alla prova, di essere portato sul bus che li trasporterebbe a destinazione, ma il disappunto della guida è categorico, tanto da concludersi con una cruda affermazione: “Mi dispiace, non puoi.”
E’ la frase scatenante di un momento che rappresenta la forza di volontà compressa e racchiusa in un uomo che non ha la possibilità di scatenarla con credibilità:
– “Non dirmi quello che non posso fare. E’ il mio destino. Non dirmi quello che non posso fare.”
In quel momento, mentre guarda il bus allontanarsi senza di lui, è tutto il mondo ad essere incollato ad una carrozzina. Tranne lui.
Cambio di scena: John Locke è sull’isola e può muovere le gambe. Il primo modo in cui le userà, sarà per alzarsi e prestare soccorso nell’inferno del disastro aereo.