Il desiderio di evadere, la smania di trascendere se stessi, sia pure per qualche momento, è ed è stato sempre uno dei principali bisogni dell’anima.
Aldous Huxley – Le Porte della Percezione
Perché vivere in un mondo fuori dalla propria mente? Questo è l’interrogativo più implicito tra quelli stimolati dalla visione di La Pulsazione della Macchina, uno dei cortometraggi animati che compongono Love Death & Robots 3. L’episodio scritto da Emily Dean non si distingue soltanto per tematiche, grazie alle quali la tanto inflazionata quanto sempre affascinante coscienza artificiale trova una connotazione più ampia nel “contesto alieno” e nella (non) conoscenza dello spazio, bensì anche in quel surrealistico stile pastello che vuol essere un omaggio al maestro francese Moebius.
La sceneggiatura essenziale di La Pulsazione della Macchina è a due tempi una premessa e una promessa: dato il La ai fatti con l’incidente iniziale, la narrazione ha sùbito l’obiettivo di disilludere lo spettatore in merito all’esito dell’episodio. Martha Kivelson è sola, ha perso la sua partner in missione, il suo mezzo di trasporto è distrutto, ha un danno irreparabile al sistema che provoca livelli di CO2 critici ed è costretta a trascinare il cadavere della sua partner per poter usufruire del (poco) ossigeno restante. Come se non bastasse, ha perso ogni collegamento con la casa base e dista 41 km da un presunto “mezzo da sbarco” più vicino. Una lista di elementi posti al fine di concentrare l’attenzione sul viaggio, e non sull’esito (ormai scontato) dello stesso.
Regole di un gioco molto chiaro, quelle descritte dall’episodio di Love Death & Robots 3, che diventano un quadro completo e definitivo quando Martha attiva l’iniezione di morfina tramite la sua tuta spaziale: il viaggio è iniziato, e la realtà oggettiva non avrà più valore narrativo.
Ero il mondo in cui camminavo. E ciò che vedevo, o percepivo, o sentivo veniva da me soltanto.
Con questa frase viene scandito il viaggio onirico di Martha, una poesia lisergica che racconta l’incomunicabilità delle sensazioni, dei sentimenti e delle fantasie se non per mera e riduttiva convenzione. Un messaggio chiave anche dell’opera Le Porte della Percezione di Aldous Huxley, che a sua volta ha alla base del saggio l’uso di un allucinogeno (la mescalina) ai fini dell’indagine esistenzialista.
Martha Kivelson traccia le orme della sua esistenza sull’oro sabbioso di un pianeta muto, fatto di laghi di spazio dove le increspature d’acqua sembrano quasi orbite in fasci, labirintiche sinapsi di una macchina universale, quella che Martha comincia a vedere (e sentire) davvero. Così Love Death & Robots 3 ci presenta IO, l’ennesima intelligenza artificiale che stavolta, però, ha i tratti eterei e sempiterni che solo in un’altra occasione prima aveva avuto, durante l’episodio più bello dell’intera serie: Zima Blu.
L’appercezione, la verità in quanto esperienza percepibile, non può che essere il tema principale di un’opera che chiama il suo deus ex col nome “IO”. Perché c’è tutta l’ironia di una realtà costruita unicamente da ciò che percepiamo, quando sentiamo Martha rivolgersi a una macchina che potrebbe essere solo nella sua mente, e chiamarla “io”.
Noi viviamo insieme, agiamo e reagiamo gli uni agli altri; ma sempre, in tutte le circostanze, siamo soli.
Aldous Huxley – Le Porte della Percezione
Sola è Martha. Sola è la mente che viaggia per sempre e attraverso strani ioni di pensiero (ci tiene a precisarlo più volte la voce di “IO”, durante l’episodio). Soltanto in questo modo il viaggio della protagonista è possibile: in solitudine. Con la malinconica autonomia di un mondo che è creato da ciò che è vero giacché lo vediamo. Per questo la percezione della realtà e gli ultimi istanti di vita di Martha diventano per Love Death & Robots 3 un argomento unico, l’autentica presa di coscienza che il mondo sia una sensazione tanto quanto lo è la morte. Perché, come direbbe Wittgenstein, il mondo è un insieme di fatti. Non di cose.
– IO, se sei un computer, allora qual è la tua funzione?
– Conoscerti.
È in quel momento, dopo aver ricevuto (o meglio essersi data) questa risposta, che Martha rilascia un ultimo consapevole sospiro. Capisce che non sarebbe potuta esistere risposta più empirica, così tanto eretta dall’architettura della propria mente da sembrare, appunto, “solo” un sogno. Cosicché possa concludere:
Forse vivrò per sempre. O forse questo è soltanto un ultimo sogno.
Dove la linea sottile tra salvezza e suicidio genera la suprema opera d’arte finale per la protagonista di questo corto di Love Death & Robots 3, nasce la vera “pulsazione dell’uomo”, la vita come pura e semplice percezione: un gemito di coscienza che fa dei propri ricordi l’intera storia dell’universo; del proprio breve tempo l’angosciante cristallizzazione del suolo su cui si cammina; delle proprie conoscenze una guida in versi recitati da una voce amica; e della morte la disillusa chance che la nostra mente continui a vivere grazie a un atto di trascendenza, sia anche per un nuovo sconosciuto attimo. Sia anche per sempre.
Non c’è nulla di più confortante di una fine che sembra un inizio. E allora perché vivere in un mondo fuori dalla propria mente, dove la vita ha sempre una sola fine?