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La terza stagione di Love Death & Robots è all’altezza delle prime due?

Love Death & Robots
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Era il 2019 quando Love Death & Robots fece la sua prima apparizione: una serie tv antologica d’animazione come non se ne erano mai viste prima. Sbarcata sulla piattaforma Netflix e prodotta da Tim Miller e David Fincher, la serie tv si presentò da subito come un prodotto pensato e disegnato per un pubblico adulto. Le componenti di violenza, sesso e linguaggio volgare sono, infatti, direttamente proporzionali allo spessore narrativo del materiale di fondo. Insomma, la prima stagione di Love Death & Robots partiva con grandi ambizioni. Innanzitutto, quella di creare una varietà di contenuti non solo nella sostanza ma anche nella forma, poi, quello di superare ancora di più il concetto di animazione per adulti. Di fronte alla serie tv creata da David Fincher, Rick & Morty vi sembrerà quasi un cartone da scuola media.

Abbracciando vari generi, tra cui l’horror e la fantascienza, lo show racconta storie di amore, morte e robot in una forma compressa di massimo 20 minuti. Love Death & Robots è uno spettacolo per gli occhi ma anche per la mente, capace di trasmettere messaggi morali di notevole impatto in meno di mezz’ora e di farli attraverso animazioni sempre accattivanti e sempre diverse. Non c’è da stupirsi, quindi, che l’uscita della terza stagione fosse attesa da moltissimi con trepidazione ma – come sempre succede nel caso di prodotti di successo – anche con il timore che non fosse all’altezza delle precedenti.

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In verità, non solo la terza stagione di Love Death & Robots si dimostra efficace quanto le precedenti ma per certi versi le supera. In particolare per coesione e potenza espressiva.

Tutte le stagioni di Love Death & Robots esplorano numerose tematiche cercando diverse strade per raccontarle. Le storie man mano raccontate sono sempre più crude e violente, poco viene lasciato all’immaginazione: gli stupri perpetrati in “Sonnie’s Edge” e “Good Hunting”, tra i racconti più femministi della raccolta; i massacri sanguinosi in “Shapeshifter”, “Sucker of Souls”, “Secret War”, “Snow in the Desert”; le distopie horror di “Pop Squad”, “The Tall Grass” e “Beyond the Aquila Rift”. A una tendenza gore prettamente visiva, che farà felici tutti i fan di Tarantino, si affiancano storie ricche di moniti per l’umanità. Insomma, a metà tra Pulp Fiction e Black Mirror (la cui sesta stagione è in fase di sviluppo), la serie tv utilizza la violenza e lo shock come medium per trasmettere determinati messaggi morali. A volte eccedendo nella sua missione, altre volte centrando in pieno l’obiettivo.

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La prima stagione, che rimane la più lunga e la più eterogenea, si concentra in particolar modo sui limiti umani: fin dove siamo disposti a spingersi per ottenere ciò che vogliamo? quali scelte siamo disposti a compiere per superare tali limiti? Tutti i personaggi di quei primi 18 episodi sono messi alla strette, chiamati a compiere una scelta di fronte al bivio messo loro di fronte che si biforca in moralità ed egoismo.

Anche i protagonisti della seconda stagione sono chiamati, spesso e volentieri, a prendere delle decisioni ma stavolta, al centro della narrazione, viene posto il rapporto con la tecnologia. Faro di rinnovamento e speranza per una vita immortale, la tecnologia assurge a duplice ruolo di punitrice e dispensatrice di fortune. La tecnologia è il solo mezzo per garantire la sopravvivenza del genere umano ma a che prezzo?

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La terza stagione raccoglie la lezione delle precedenti facendola sua, arricchendola, approfondendola e perfezionandola persino. Il rapporto con l’altro diventa il focus attorno al quale ruotano i nuovi nove episodi. Rapporto che assume molteplici sfaccettature nel corso della stagione, pur rimanendo un certo fil rouge di fondo: l’uomo è disposto a imparare dall’altro oppure è spinto ad annientarlo? L’arroganza umana, già paventata nelle due precedenti stagioni, raggiunge qui il climax espressivo più alto lasciandoci ora rassegnati all’inevitabile disfatta dell’umanità, ora ancorati a una flebile speranza di miglioramento.

La stagione si apre allora con i tre robottini che, di nuovo, si fanno ironici messaggeri della disfatta dell’umanità per sua stessa mano. Ritroviamo l’umorismo anche in “Mason’s Rats”, dove un contadino scozzese deve fare i conti con un’invasione di roditori nel suo fienile. Agendo d’impulso, l’uomo cerca di sbarazzarsene in tutti i modi, ricorrendo persino a un robot d’assalto destinato all’esercito, salvo poi rendersi conto dei suoi pregiudizi nei confronti dei nuovi piccoli vicini. In “Kill Team Kill”, una squadra speciale tutta testosterone e umorismo è in missione segreta ma quello che trovano è solo l’ennesimo mosto cybernetico creato per scopi militari senza senso.

Più coesa, la terza stagione di Love Death & Robots non rinuncia alla fantascienza e all’horror, rappresentati in questo round da due episodi nello specifico.

Il primo è “Bad Travelling”, diretto da David Fincher in persona e tratto dall’omonimo racconto di Neal Asher. L’equipaggio di una nave è costretto a fronteggiare un terribile mostro marino, chiamato da loro thanapod, e le implicazioni morali che seguirebbero l’accontentare la bestia. Spetta a Torrin, navigatore della nave, incarnare i panni di moderno Capitano Achab e affrontare le scelte dei suoi compagni. Il secondo è “In Vaulted Halls Entombed”, tratto da un racconto di Alan Baxter e fondato su una CGI da brividi. Un gruppo di soldati si imbatte in uno spirito oscuro di lovercraftiana memoria che rischia di venire sguinzagliato nel mondo, toccherà a una di loro impedire che l’orrore abbia il sopravvento.

Alla fantascienza, all’ horror e all’umorismo si aggiungono infine storie di pura bellezza e poesia. “The Very Pulse of the Machine” vede un’astronauta rimasta sola e in fin di vita sulla superficie della luna di Giove, Io, dopo che un incidente ha causato la morte del suo partner. Per tutta la durata dell’episodio non è ben chiaro se ciò che accade a Martha sia frutto di allucinazioni dovute alla morfina o sia la realtà effettiva. Di certo l’episodio risulta il più filosofico ed evocativo della collezione.

“Jibaro” è l’ultima storia di questa terza stagione, diretta e scritta da Alberto Mielgo (lo stesso di “The Witness”) nonché una chiusura con il botto. Un gruppo di conquistadores si ferma nei pressi di un lago, dove una sirena interamente coperta di oro e gioielli li attira con il suo canto verso una danza disperata di morte e desiderio. Nessuno riesce a sfuggirle, nessuno a parte Jibaro che, essendo sordomuto, è immune al canto della sirena. Affascinata da lui, la sirena inizia a seguirlo e lo approccia famelica di un contatto umano. Ma Jibaro, che non vede altro che la luccicante pelle che ricopre la creatura, la tramortisce e inizia a spogliarla di tutto. La storia, dalla potenza espressiva disarmante, si conclude con la vendetta dell’altro, la sirena, che punisce l’uomo, Jibaro, per la sua arroganza.

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