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Ludik non è male, ma sembra troppe cose tutte insieme

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Attenzione! Il seguente articolo contiene spoiler relativi alla Serie originale Netflix Ludik.

Nonostante Netflix ci abbia abituato a produzioni originali di tutto rispetto, questo non può proprio essere definito il migliore degli inizi per la serialità sudafricana. Ludik, la prima serie originale Netflix interamente prodotta e realizzata in Sudafrica, creata da Paul Buys e Annemarie Van Basten e approdata sulla nota piattaforma streaming lo scorso 26 agosto, non convince.

Non fraintendete: non è un prodotto di qualità mediocre, anzi. La mano – e il portafogli – di Netflix si vede ed è sempre presente. C’è un attore di punta – Arnold Vosloo, l’Imhotep de La Mummia nel noto film del 1999 -, c’è sviluppo di trama, c’è tensione, c’è dramma. Ma nonostante ciò, la serie originale Netflix si è dimostrata essere finora un flop, con una quotazione di 5,5/10 all’interno del noto sito IMDb.

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Dean Ludik/Arnold Vosloo (640×338)

Le ragioni per cui Ludik non convince sono diverse, e cercheremo di affrontarle una per una. Prima fra tutte, in Ludik c’è tutto – troppo di tutto.

La serie sudafricana targata Netflix nasce come thriller, raccontandoci la storia dell’imprenditore di mobili Dean Ludik – “Mettetevi comodi“, recita il suo slogan aziendale – interpretato dall’attore protagonista Arnold Vosloo. Dean rappresenta solamente un pesce piccolo all’interno del mondo della criminalità sudafricana: gestisce un piccolo traffico di diamanti sul confine tra il Sudafrica e lo Zimbabwe per arrotondare e permettere alla propria famiglia di vivere una vita agiata. La sua quiete viene però spezzata quando Arend Brown (Sean Cameron Michael), magnate e filantropo di facciata ma segretamente a capo di un traffico di armi, decide di rapire il cognato di Dean per costringere quest’ultimo a trasportare armi usufruendo della sua rete di trasporti via camion.

Se gli sceneggiatori si fossero fermati qui, cercando di approfondire queste dinamiche senza sviluppare sottotrame su sottotrame, forse adesso staremmo scrivendo un articolo completamente diverso. Ma purtroppo non è andata così. Ai traffici di diamanti e di armi si affianca così anche la sottotrama del dramma familiare – sottotrama che sembra ispirarsi alla serie I Soprano ma che di quest’ultima non riesce a cogliere la profondità -. Un figlio problematico, taciturno e troppo influenzato dal padre, una figlia in lotta tra la famiglia e l’indipendenza, un matrimonio alle strette a causa della totale mancanza di comunicazione. E ancora: un cognato alcolizzato e affranto da una vita che lo ha sempre visto nel ruolo di eterno perdente, un fratello segretamente omosessuale e un padre tanto anziano quanto burbero e insensibile. A questo, vanno ad aggiungersi frequenti flashback in cui assistiamo a estratti dell’infanzia e dell’adolescenza di Ludik: ci viene raccontato del suo difficile rapporto con il padre, del suo talento nelle vendite, nonché del suo rapporto con il cognato Swys De Villiers (Rob van Vuuren).

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Swys De Villiers/ Rob van Vuuren (640×320)

E fin qui, potrebbe pure andar bene. Certo, i buchi di trama ci sono e sono evidenti, così come anche alcune forzature – una fra tutte, la relazione della figlia Louise con il figlio del generale Davies – ma la sottotrama del dramma familiare spesso aiuta il pubblico a giustificare le azioni dei singoli personaggi, e ciò ne legittima l’approfondimento.

Il problema, ciò che ha determinato il flop di una serie che avrebbe potuto rappresentare senza alcun dubbio un’ottima occasione per la serialità sudafricana, sta proprio nella volontà degli sceneggiatori di strafare e di inserire all’interno della storia un po’ di tutto.

Abbiamo già citato il dramma familiare e gli elementi thriller. A questi, si aggiunge l’elemento poliziesco rappresentato dal Brigadier Davies (Zane Meas) e dal detective Moyo (Mzu Ntantiso) – da quest’ultimo personaggio ha origine non solo la vena comica della serie, ma anche un altro elemento thriller rappresentato dalla sua segreta collaborazione con Arend Brown – e dal loro coinvolgimento nell’indagine intrapresa a seguito di un’incidente che ha visto protagonista proprio il furgone che Ludik ha usato per il trasporto delle armi nello Zimbabwe. E ancora: hacker (ruolo ricoperto dalla collaboratrice di Ludik Lil (Tina Redman) e dal figlio di quest’ultima), inseguimenti, depistaggi e tradimenti. A tal proposito, la sceneggiatura si caratterizza per uno spropositato uso dell’espediente narrativo del doppiogioco – non solo quello del detective Moyo ma anche quello di Bells (Jandre Le Roux), braccio destro di Arend Brown; di Rina Goosen (Inge Beckmann), collaboratrice di Dean Ludik e di Ludik stesso, che decide di mettersi in affari con Albert Nkala (Lemogang Tsipa), il boss criminale a cui le armi erano destinate.

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Brigadier Davis e detective Moyo (640×360)

Insomma, senza proseguire ulteriormente nell’elenco di tutti gli elementi che, sommati l’uno all’altro, rendono la sceneggiatura della serie originale Netflix estremamente pesante, ci limitiamo a sottolineare altre tre criticità – non di secondaria importanza.

La prima di queste è rappresentata dagli script dei singoli personaggi che popolano la serie sudafricana: sono infatti diverse le occasioni in cui gli attori – Arnold Vosloo fra tutti, ma anche Rob van Vuuren – hanno tentato, senza particolari successi, di conferire spessore e credibilità al proprio personaggio. La seconda criticità è invece rappresentata dall’esagerato utilizzo della tecnica dello split screen, scelta registica obbligata e indispensabile al fine di raccontare una storia troppo densa e contorta senza che questa confonda lo spettatore disincentivandone la visione. La terza è invece rappresentata dalla quasi totale assenza di cliffhanger, di climax efficaci all’interno del singolo episodio che stimolino lo spettatore.

In conclusione, crediamo che Ludik sia a tutti gli effetti un’occasione sprecata. Con un colosso come Netflix alle spalle, poteva anzi rappresentare un’ottima possibilità per mettere sotto i riflettori la serialità sudafricana, ma così non è stato. La sceneggiatura è un vero e proprio calderone di generi e sottotrame male assortiti, a cui vanno ad aggiungersi personaggi scritti superficialmente o poco e inutilmente approfonditi – salvo pochissime eccezioni -. Insomma, non un prodotto da dimenticare, ma da cui ripartire al fine di creare qualcosa di valido e che possa dare il giusto valore ad una industria dell’intrattenimento, quella sudafricana, troppo spesso rilegata in secondo piano davanti ai colossi americani ed europei.