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Luke Cage, la psicologia dietro la super-forza

Luke Cage
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Netflix ha incassato un altro successo. Luke Cage entra di diritto nell’elenco delle migliori serie Marvel-Netflix, insieme, guarda caso, a Daredevil e Jessica Jones. Le basi per The Defenders ormai ci sono tutte, e sono decisamente solide e valide; non siamo di fronte ad un prodotto perfetto, ovviamente. Tuttavia è impressionante notare come tematiche potenzialmente leggere o insignificanti (come la storia di un fumetto) siano trattate, sviluppate e messe in scena con una meticolosità e accuratezza tali da trasformarsi in grandi storie per serie drammatiche. Vediamo dunque cosa ci ha lasciato Luke Cage, di buono e di meno buono.

Luke Cage

Mike Colter è Carl Lucas, un ex agente mandato in prigione a Seagate dopo essere stato incastrato da quello che scopriremo essere il fratellastro. In questa prigione, ridotto in fin di vita dallo scontro con due prigionieri (uno dei quali, Shades, sarà fra i principali antagonisti della storia), viene sottoposto ad un esperimento che avrebbe dovuto guarirlo ma, oltre a farlo, gli attribuisce incredibili poteri: la sua pelle, come abbiamo ammirato già in Jessica Jones, è impenetrabile (o quasi), e la sua forza è decisamente notevole (usando un eufemismo). Scappa da Seagate e si ricostruisce una vita con Reva, la psichiatra della prigione che aveva convinto il dottore ad effettuare l’esperimento: cambia il nome in Luke Cage e va a vivere ad Harlem. Al di là di tutte le interessanti retrospettive che caratterizzano la vita di questo personaggio, avvolto nel mistero fino alle ultime puntate, ciò che preme sottolineare è la sua psicologia e quella di alcuni personaggi che hanno lasciato il segno più di altri.

Luke Cage

A questo proposito è opportuno mettere in evidenza due aspetti che forse potevano essere lavorati meglio. Partiamo da Cottonmouth (Mahershala Ali): il personaggio è l’antagonista della prima parte di stagione e, un po’ inaspettatamente, sparisce di scena in quanto ucciso dalla cugina Mariah. Se all’inizio egli può sembrare un cattivo vuoto, la cui malvagità è racchiusa solo nella fastidiosa risata che spesso sfoggia, il suo scontro con Luke Cage fa emergere le sue debolezze: la sua psicologia viene affrontata puntata per puntata attraverso sconvolgenti flashback che impietosiscono lo spettatore, quasi disposto a comprendere un personaggio così malvagio. Eppure, forse questa compassione è la strada che lo conduce dritto alla morte: rimane un senso di frettolosità e insoddisfazione al proposito, come se questo cattivo avrebbe potuto dire molto più di quanto abbia detto.

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Immediatamente collegato a ciò è il personaggio di DiamondBack, aka Willis Stryker. Costui si rivela essere la vera nemesi di Luke Cage: sia per i motivi alla base del suo odio (familiari, ma anche in parte forzati: una persona che sembra così sveglia non riesce a capire che i figli non devono pagare i peccati del padre), sia per l’odio stesso: l’attore (Erik LaRay Harvey) riesce a far trasparire dai suoi sguardi la follia e il razionale disprezzo allo stesso tempo, decretando dunque il ruolo di vero cattivo della storia: ma proprio per questo, non poteva essere sviluppato più approfonditamente? Non si poteva fornire una preparazione migliore? Ad esempio, la sua entrata in scena sarebbe stata incredibilmente più attesa e folle se i criminali che parlavano di lui, Cottonmouth e Domingo, avessero accentuato questa mistificazione, questo timore nei suoi confronti, proponendo più spesso conversazioni simili, che davano a Stryker un’aria di intoccabilità e imprevedibilità, come si è poi effettivamente dimostrato.

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Veniamo dunque al principale motivo che rende questa serie una produzione coi fiocchi: Luke Cage stesso. Non mi riferisco soltanto all’ennesima scelta di cast a dir poco perfetta, ma soprattutto a quello che la serie vuole comunicare attraverso questo personaggio: non solo quindi ciò che Luke Cage è, ma anche quello che Luke Cage rappresenta. Ad essere piacevole non è solo il contrasto tra l’indistruttibilità esterna e la vulnerabilità psicologica interna (ce ne ha messo di tempo per decidere di fare l’eroe, la sua prima mossa sarebbe stata quella di fuggire), ma anche il valore che “un uomo nero con la felpa” ha in un quartiere come Harlem: in un periodo di guerra civile (vera, purtroppo) fra poliziotti e neri negli Stati Uniti, questa serie cerca di dare una speranza.

Commoventi sono le testimonianze dei civili che parlano di Luke Cage come un eroe, non solo perché salva loro la vita, ma anche perché è nero: un orgoglio da mostrare in pubblico, acquistando felpe con i buchi di proiettili, per sentirsi tutti più “bullet-proof”, più invulnerabili, quando sanno che c’è un “fratello” pronto a proteggere tutti, bianchi, neri, asiatici e ispanici, anche da altri “fratelli” (Cottonmouth e DiamondBack) o “sorelle” (Mariah) che vogliono solo il proprio bene e mai quello degli altri.

luke cage

Questa è l’essenza di Luke Cage: non è alla lotta tra etnie che ci si rivolge (come invece purtroppo avviene spesso nella nostra realtà), ma è nella ricerca dell’eterno ritorno dello scontro fra Bene e Male, tra Verità e Falsità che si trovano le risposte ai bisogni della gente.