Spoiler Altert: l’articolo contiene spoiler sul finale della serie L’uomo delle castagne!
È passato un po’ di tempo da quando L’uomo della Castagne ha fatto il suo ingresso nel catalogo della piattaforma Netflix ma, a quanto pare, abbiamo ancora qualcosa da dire a riguardo. Il giallo danese è riuscito a catalizzare l’attenzione degli spettatori che si sono espressi con pareri abbastanza concordi sulla serie, ad eccezione di qualche voce di dissenso. L’ambientazione ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione di questa storia e nella connotazione delle sue atmosfere. Ci troviamo di fronte alla brutale e inarrestabile violenza di un misterioso serial killer che colpisce ripetutamente la comunità di Copenhagen con efferati crimini e lascia una traccia della sua opera con un misterioso omino di castagne, simile a quelli che vengono realizzati dai bambini della città nel periodo autunnale.
Sottolineare che si tratti di un’adattamento cinematografico che nasce da un romanzo non è un aspetto secondario ai fini dell’analisi di questa serie. La storia raccontata è tratta dal romanzo d’esordio di Søren Sveistrup, già noto al grande pubblico per il suo apprezzato lavoro da creatore e sceneggiatore in The Killing. La familiarità dell’autore con questi luoghi contribuisce ad accrescere la suggestione che la fotografia e la scenografia ci restituiscono attraverso la macchina da presa. Molto probabilmente, non avremmo avvertito le stesse sensazioni durante la visione se il racconto avesse avuto un’ambientazione differente. Infatti, la luce tipicamente nordica di questi luoghi che avvolge i personaggi è protagonista al pari degli eventi che si intrecciano nella trama.
Nella città danese, la polizia locale cerca una pista plausibile da seguire per poter catturare questo assassino che designa come sue vittime madri giovanissime e, ormai, ha gettato la città nel panico. Protagonisti di questa ricerca disperata e angosciosa sono Naia Thulin, una giovane donna che desidera trascorrere più tempo con sua figlia e per questo medita di intraprendere una carriera lavorativa diversa e Mark Hess, un agente dell’Europol giudicato per i suoi metodi poco ortodossi e tenuto alla larga dai suoi colleghi. Uno dei punti di forza della storia è l’intreccio dei fili narrativi che lasciano presagire possibile scenari, di cui soltanto in alcuni casi abbiamo indizi che ci permettono di ricostruire l’effettivo svolgersi degli eventi. La maggior parte delle volte, invece, ce ne stiamo sospesi, tra eventualità, dubbi e ipotesi. Questo è ciò ci permette di considerare L’Uomo delle Castagne un giallo perfettamente funzionante secondo i meccanismi del genere. Inoltre, l’inquietante ritrovamento sugli omini di castagne delle impronte di Kristina Hartung, la figlia della Ministra degli Affari Sociali scomparsa anni prima, addentrano le indagini in un labirinto ancor più intricato e apparentemente senza uscita. Oramai, le vite di coloro che sono coinvolti nel caso ne sono profondamente sconvolte: tra minacce di morte, speranze che si riaccendono e indizi disseminati, gli episodi scorrono senza intoppi.
Se c’è qualcosa che possiamo recriminare a questa serie prodotta da Netflix è di non aver avuto l’ambizione di puntare a qualcosa di più che a una miniserie fatta bene. Ciò che le è mancato è stato proprio il coraggio di spingersi oltre e provare a fare la differenza fra le altre produzioni dello stesso genere. L’uomo delle castagne non è certo una miniserie rivoluzionaria, intenzionata a imprimere dei cambiamenti alla narrazione tipica dei prodotti thriller e crime. Anzi, ne rispetta pedissequamente i cliché ed è questo il motivo per cui non sempre riesce a stravolgerci. I colpi di scena sono ben collocati nel corso del racconto ma non ci sorprendono come dovrebbero e di qui, l’appiattimento e il rallentamento del ritmo che si avverte soprattutto negli episodi intermedi della serie.
Una nota di merito è quella di aver scelto di intrecciare ai meccanismi del genere altre tematiche importanti e in grado di evitare una banalizzazione della trama: la gravità dei traumi infantili che, nel corso della vita, trovano il modo alimentarsi e possono trasformarsi in terribili ossessioni a cui è impossibile sottrarsi. Nascono imperativi morali fortemente condizionanti di cui si finisce per essere agenti e, allo stesso tempo, vittime. Questo è ciò che emerge nel momento esatto in cui conosciamo l’identità dell’omicida, Simon Genz, il cui vero nome scopriamo essere Toke. Egli è soltanto un bambino quando, nel 1987, cova un dolore così grande che si trasforma in follia omicida e lo induce ad assassinare entrambi i suoi genitori adottivi che infliggevano, sia a lui che a sua sorella, violenze e abusi. Questo spiega l’incipit del prologo in cui avevamo visto l’agente Marius irrompere in una casa ritrovandosi di fronte alla raccapricciante scena. Un’infanzia così drammatica ne determina le turbe della sua vita da adulto: nonostante un’apparenza completamente “normale”, da ligio lavoratore integrato nella società, Toke è animato dal desiderio di porre fine alla vita delle madri incapaci di amare e prendersi cura dei propri bambini. Essere madri, per quest’uomo, implica un amore totalizzante. Questo sentimento non ammette scusanti perché deve essere, in ogni circostanza, pieno e sopra ogni altra cosa. Dunque, tutte le donne che non si dimostrano all’altezza del proprio compito non meritano di continuare a trattare con trascuratezza i propri figli. Inoltre, i continui silenzi e le mancate prese di posizione da parte delle forze dell’ordine competenti nonostante le lettere anonime di denuncia da lui inviate, nel tempo hanno contribuito a giustificare la sua iniziativa.
Nonostante questi risvolti narrativi interessanti, i personaggi de L’Uomo delle Castagne sono stereotipati e, per questo, le dinamiche scorrono senza troppe difficoltà. Non ci sono risvolti imprevedibili in cui noi spettatori ci imbattiamo ma tutto scorre con ritmo controllato, nonostante una nota di tensione che fa da costante di sottofondo. Possiamo considerarla un giusto compromesso per chi abbia voglia di una storia capace di tenere incollati allo schermo ma che non si aspetta eccezionali sorprese. La serie di Søren Sveistrup non annoia ma si adagia su ciò che già altri prima di lui hanno sperimentato. Il nostro dispiacere è motivato dalle sue potenzialità che sono state, in questo modo, sprecate: con un simile cast e i suoi panorami mozzafiato, L’Uomo delle Castagne avrebbe potuto puntare più in alto e guadagnarsi più ammirazione di quella che già ha raccolto presso i suoi spettatori.
Quello che ci auguriamo è che la corrente del giallo danese non smetta di sperimentare e che abbia l’audacia di fare qualche salto nel vuoto in più perché siamo certi che dall’altra parte troverebbe un pubblico pronto ad accogliere questa novità, proprio come ha apprezzato gli sforzi fatti per stare negli schemi del genere. In questo caso, il risultato è stato comunque un prodotto godibile, capace di stimolare curiosità dei suoi spettatori e non banalizzare i moventi degli spietati crimini, usando come espediente la vita passata dell’assassino per trattare tematiche impegnative e non consuete. L’Uomo delle Castagne sicuramente non ci ha delusi ma ci ha fatto venir voglia di guardare oltre, senza accontentarci. Ed è un vero peccato che, ad accontentarsi, sia stata la serie stessa.