In ambito televisivo e cinematografico, e più in generale in ambito narrativo, le connessioni tra le tragedie e le farse possono essere molto più sottili di quanto si possa pensare. Una volta che cadono i filtri e le storie si disvelano nella loro essenza più pura, tuttavia, si può individuare una matrice sorprendente. Di fronte ai nostri occhi, la tragedia. Le cause e le conseguenze, derivate da un racconto drammatico e dai toni cupi. Le letture e le riletture successive, tuttavia, possono mettere in luce altro. Il buio, reso ancora più disturbante dall’idea che certi eventi, capaci di segnare la nostra storia, contengano tra le righe sfumature inaspettate che ci costringono a sospendere l’incredulità. E prendere atto, soprattutto, del fatto che il registro grottesco possa trasformarsi nel più realistico degli approcci.
Eccola, allora, la farsa. Uno scivolamento audace verso la comicità, anche quando non ci sarebbe veramente niente da ridere. Una farsa che finisce per espandere i confini del dramma. Da individuare in vicende dalla portata storica secolare, come ha fatto abilmente la serie tv M. Il Figlio del Secolo.
Nel momento in cui stiamo scrivendo, Sky ha appena rilasciato le ultime due puntate di M. Il Figlio del Secolo, ora disponibili su NOW e le varie altre piattaforme del network. E a questo punto, molto è già stato scritto: spesso a sproposito, altrettanto spesso centrando il punto. Inevitabile, nel momento in cui si assume un punto di vista coraggioso e divisivo per natura. M. Il Figlio del Secolo, serie tv tratta dal primo capitolo della saga omonima di Antonio Scurati, è la storia della nascita della peggiore delle dittature in Italia e dell’ascesa al potere del suo capo.
Storia di un secolo fa, letteralmente. Il discorso alla Camera col quale si apre formalmente la fase del regime dittatoriale che ha caratterizzato l’Italia per un ventennio, è del 3 gennaio del 1925. Giacomo Matteotti era stato ucciso alcuni mesi prima, e la serie tv non si tira indietro nel dispensare gli spettatori dai dettagli più atroci di una tragedia che rappresenta uno degli spartiacque principali della nostra storia. Già, storia di un secolo fa. Ma la serie non si limita mai a imbrigliarci all’interno di un’epoca passata, come avrebbe fatto qualunque altro period drama. Al contrario, la schiude ai nostri occhi e la riporta a noi. Spezza la drammaturgia attraverso una sapiente e dinamica rottura della quarta parete, girando a un ritmo impazzito le pagine del Novecento per instaurare un dialogo diretto con chi sta oggi oltre la telecamera.
Il riferimento è chiaro, esplicito e irriverente. Fin dalla primissima scena, M. Il Figlio del Secolo mette al centro del palcoscenico un uomo che sta scrivendo la storia e allo stesso momento funge da guida soggettiva (anche per sé) per offrire una visione faziosa della stessa.
M., l’affabulatore delle masse, guarda dritto nei nostri occhi e si confessa, spingendosi ancora oltre. Parla con noi, ma il suo è prima di tutto un dialogo interiore. M., d’altronde, sembra ingannare se stesso, oltre a tutti gli altri. Se da un lato l’espediente narrativo, valorizzato da un Luca Marinelli del quale sarebbe persino superfluo evidenziare la forza nell’interpretazione di un personaggio tanto orribile e complesso, trova nei numerosi riferimenti precedenti una sponda ideale per individuarne le potenzialità e le finalità, dall’altra fa un passo oltre l’orizzonte e si spinge altrove. Là dove nessun’altro aveva fin qui esplorato il campo.
M. Il Figlio del Secolo esplora in otto episodi gli anni dell’avvento, della presa del potere e della stretta definitiva per il controllo totalitario dello Stato, ed è evidente quanto il suo protagonista abbia assunto sfumature differenti nel tempo. Il primo M. che incontriamo, sospeso in una dimensione atemporale che abbraccia la sua contemporaneità con la piena consapevolezza di quello che succederà nei decenni successivi, è immerso nel narcisismo dell’uomo che ha ottenuto tutto quello che desiderava. Al punto da potersi permettere di parlare con noi e camminare tra le nostre strade ancora oggi, spinto dall’impulso di conquistare persino i posteri.
M. è istrionico e suscita addirittura alcune risate. Genera così un senso di disorientamento radicato in chiunque assista a quello che è a tutti gli effetti il suo spettacolo.
Una messinscena, reale. L’opera di maggiore successo di un saltimbanco della politica, un trasformista che ha cavalcato gli eventi e li ha fatti propri, soggiogando al suo volere un tempo che sente arrivare “come le bestie”. M. si compiace dietro una maschera e al di là di essa, gettata a terra e poi ripresa in mano per scrivere la sua storia.
Fin qui, la rottura della quarta parete è figlia di una lunga tradizione. M. Il Figlio del Secolo ne sfrutta al meglio le potenzialità, ma a un certo punto supera il confine. La sceneggiatura, scritta dai superlativi Stefano Bises e Davide Merino (due autori che stanno segnando profondamente la golden age della serialità italiana), infatti, non si vincola alla staticità del mezzo: al contrario, lo rende ancora più dinamico. La quarta parete, a un certo punto, si ricompone. La maschera cade anche nella sua realtà, portandolo all’oblio in una spirale distruttiva senza alcun argine. La scelta ha una funzione specifica: polarizza con decisione i sentimenti provati nei suoi confronti, arrivando a una repulsione e a un distacco emotivo totale che trova nel finale la sua massima espressione.
Più la tragedia avanza, più la farsa si legge nelle ombre degli eventi. M. si allontana dai nostri occhi indiscreti dal quarto episodio in poi, chiudendosi maggiormente in se stesso.
La sua figura, preda di paure crescenti e dello spettro del fallimento che si scontra con le sue sconfinate ambizioni, mostra le fragilità più recondite del suo spirito. Non sparirà mai, ma le sue incursioni nella dimensione atemporale saranno più sporadiche e finalizzate a incorniciare gli eventi.
La paura, d’altronde, è il filo conduttore dell’intera serie. Come si è evidenziato anche all’interno della recensione in anteprima, M. “si muove come un uomo comune, e in quanto tale nutre il sentimento più umano che ci sia: la paura. La paura è il motore di una narrazione in cui il protagonista cerca qualsiasi stratagemma per evadere dalla squallida dimensione sociale in cui si trova. Dimensione che rifiuta e di cui ha in fondo paura”. I suoi limiti, in tal senso, sono parte della sua fortuna. La paura, di cui è figlio ma anche padre e fratello, è e sarà il grimaldello attraverso il quale scardinerà il vecchio sistema e instaurerà il suo regime.
L’evoluzione del registro narrativo evidenzia così il carico insostenibile della storia che si sviluppa con implicazioni terribili, finendo per arginare le chiavi adottate dall’inizio.
Un passaggio che denota un grande equilibrio nel bilanciare i fattori della sceneggiatura. Si esprimono in questo modo le combinazioni più spiazzanti della tragedia con la farsa. L’ultima incursione chiude la prima stagione di M. Il Figlio del Secolo: una sola parola, “silenzio”. Il sipario abbassato dopo lo “show” più importante, mentre le lancette del tempo si fermano e ci immortalano nella più atroce delle istantanee. Gli avversari e le parti in causa, inermi di fronte al suo strapotere, non possono più proferire parola se non clandestinamente.
Una sliding door fondamentale, nel suo percorso. E non certo l’unico. L’irruzione della farsa nella tragedia è costante nel certificare i numerosi momenti nei quali la storia avrebbe potuto prendere un altro corso con apparente – solo apparente – semplicità. Noi, spettatori di un dramma immane, ci ritroviamo nella scomoda posizione di domandarci costantemente come sia stato possibile tutto ciò. Prima e dopo la marcia su Roma del 1922, tratteggiata dalla serie Sky coi canoni farseschi del trucco di un illusionista. M. diventa l’uomo che la storia ci ha consegnato attraverso una machiavellica manipolazione degli eventi dai toni contrastanti. Contrastanti, e spesso contraddittori.
L’elenco sarebbe lungo, e corre in parallelo rispetto al delineamento della figura pubblica del protagonista. Lui è il veleno che si cela nella proposizione dell’antidoto più semplicistico. Il ritratto, solido e credibile, non cela le peculiarità ma annienta lo spazio per ogni potenziale mitizzazione scenica. M. è un uomo trincerato in paure e ossessioni che ne evidenziano la pavidità e i più intimi conflitti interiori.
Lo scenario impostato da M. Il Figlio del Secolo è esaustivo nel restituirci tutte le sue complessità con le incursioni costanti in una sfera privata che umanizza il personaggio, pur non rendendolo in alcun modo attraente né in qualche modo empatico.
Sarebbe sufficiente tutto ciò per mettere in evidenza il valore di una serie tv italiana che porta il nostro movimento all’interno di una dimensione internazionale ancora più ambiziosa e competitiva. Tuttavia, sarebbe un errore non rendere merito alla struttura tecnica dell’opera, fiore all’occhiello di una produzione che arricchisce ulteriormente l’importante catalogo nazionale di Sky. La regia di Jon Wright e la fotografia di Seamus McGarvey restituiscono una profonda trasversalità al racconto attraverso soluzioni anticonvenzionali che contribuiscono in modo decisivo all’abbattimento delle barriere temporali, già evocato in precedenza.
Il loro è un microcosmo nel quale la finzione comunica intensamente con l’inserzione di immagini storiche reali, mentre il bianco e nero si combinano col colore in una linea di continuità che dona chiavi espressive dal forte valore narrativo. La ricostruzione storica asseconda così la centralità di un contesto che valica gli spazi dei suoi stessi interpreti, riportandoci a noi con uno stile adrenalinico che si sposa perfettamente con la colonna sonora vorticosa, immersiva e trascinante di Tom Rowlands, membro dei Chemical Brothers.
A tal proposito, è lo stesso regista ad aver illustrato le motivazioni legate a un’impostazione tanto riconoscibile. Così ha parlato nel corso di un’intervista rilasciata a Esquire: “La colonna sonora curata dai Chemical Brothers serviva per dare ritmo all’estetica dell’epoca, donare un certo futurismo, una chiave di lettura del tempo che avesse la stessa energia e lo stesso slancio che caratterizzava quel periodo storico”.
Meritevole di una menzione anche il cast di M. Il Figlio del Secolo.
Al di là della straordinaria interpretazione di Marinelli, immerso anima e corpo in M. con una prestazione che meriterebbe un riconoscimento nei massimi palcoscenici mondiali, spiccano in particolare Francesco Russo col suo Cesare Rossi, Paolo Pierobon (Gabriele D’Annunzio), Gaetano Bruno (Giacomo Matteotti), Benedetta Cimatti, Elena Lietti (Velia Matteotti) e Maurizio Lombardi (già suggestivo interprete in Ripley, ancora una volta efficacissimo nei panni del generale De Bono). Sono solo alcuni esempi perché in realtà l’elenco sarebbe molto più lungo, ma rende l’idea della cura maniacale che si riscontra nella serie da ogni punto di vista. Linguaggio incluso, valorizzato soprattutto nel caso di M. da un utilizzo peculiare del dialetto romagnolo.
Le loro interpretazioni rispondono qua e là ad alcune esigenze caricaturali imposte dal registro espressivo. Secondo alcuni critici risultano fuori luogo, ma in realtà racchiudono perfettamente lo spirito della serie stessa e ne evidenziano il talento eclettico. Le caricature, d’altronde, ci riconducono alle idee di farsa e di tragedia all’interno delle quali la serie si è mossa abilmente, sospendendoci tra lo stupore, l’angoscia e l’amara ironia di più di una situazione. Al di là di qualunque cosa si possa pensare a riguardo, è attraverso il grottesco che si arriva alla massima espressione del realismo di una fase storica del genere. Ed è così che si concretizza la genesi di una serie tv straordinaria, capace di scrivere un capitolo fondamentale della serialità televisiva italiana.
M. Il Figlio del Secolo si consegna così agli annali, certificando l’importante stato di salute del nostro movimento.
È una di quelle opere che ricorderemo a lungo, anche se al momento è difficile capire se dovremmo parlarne al passato o al presente. La seconda stagione è una possibilità, ma al momento non ci sono conferme d’alcun tipo. Lo auspichiamo, anche se è già possibile ritenersi soddisfatti: purtroppo, non mancherebbe certo il materiale da cui ripartire. Quando una serie tv si impone all’attenzione mediatica globale con questa forza, una notevole personalità e un’impronta autoriale tanto ricercata e coraggiosa, non si può non parlare di un successo su ogni fronte. Non piacerà a tutti, ma in fondo era ampiamente prevedibile: quel che rimane, però, è un’esperienza televisiva unica che porteremo con noi oltre i titoli di coda. Visti i tempi che corrono, non è poco.
Antonio Casu