“The dreams in which I’m dying are the best I’ve ever had / (…) / When people run in circles it’s a very, very / Mad world, mad world…”, cantavano i Tears for Fears nel lontano 1982. E quei sogni in cui si muore, i migliori mai avuti in questo pazzo, pazzo mondo in cui le persone non fanno altro che correre in cerchio sembrano i medesimi sogni effimeri e ambigui che ossessionano i protagonisti del folle universo di Mad Men, nessuno escluso.
Mad Men, o la vera Serie Capolavoro degli anni 2000. Il dramma esistenzialista la cui profondità di scrittura, di tematiche e di riferimenti culturali, antropologici e psicoanalitici toccano un livello talmente alto da farcela immaginare facilmente sotto forma di capolavoro letterario.
Non è dunque un caso se a cinque anni dalla sua conclusione si continui a parlare quasi con deferenza dello show creato da Matther Weiner, che ha saputo come pochi altri tracciare un ritratto generazionale di assoluta qualità visiva e soprattutto contenutistica, e che per questo è ancora in grado di ammaliare e turbare milioni di spettatori.
Perché in Mad Men nulla è lasciato al caso, e questo a partire dal titolo: uomini folli, i pazzi di Madison Avenue, i pubblicitari della New York degli anni ’60 assetati di denaro, successo, donne, ma in realtà anime perse e disperate alla ricerca vana di un senso, di uno scopo ultimo in un mondo che non capiscono.
E paradossalmente il vero protagonista di questo teatro dell’assurdo potrebbe essere al contempo il più folle di tutti o l’unico savio.
Nel corso delle sette stagioni di Mad Men Don Draper, interpretato da un Jon Hamm in stato di grazia, ci svela per gradi le stratificazioni profonde e, spesso, artificiali della sua personalità, apparendo in più occasioni come uno spettatore distaccato della sua stessa esistenza, salvo poi precipitare nei suoi momenti di vuoto e di disperazione come precipita dal grattacielo dell’indimenticabile sigla.
Una creatura perfettamente a suo agio nello spietato mondo degli affari di Madison Avenue, un camaleonte in giacca e cravatta dal fascino micidiale e dall’eleganza alla Cary Grant.
Don Draper incarna così la figura del perfetto antieroe letterario, misterioso, ambiguo, sfuggente, apparentemente incapace di amare e perennemente tormentato da un’angoscia esistenziale mascherata dietro una facciata impenetrabile di carisma e magnetismo.
Chiunque gli stia intorno, alla Sterling & Cooper o in famiglia, finisce come la falena inevitabilmente attratta dalla sua luce. Che siano i colleghi, la sfortunata moglie Betty, le numerose amanti o i fantasmi del suo passato, tutti sembrano soccombere di fronte al gorgo profondo dell’animo di Don, quasi uno spettro intangibile la cui vera essenza ci rimane oscura e inafferrabile per l’intera durata dello show.
Ma i personaggi che ruotano attorno a questa figura quasi mitica, quasi archetipo dei turbamenti dell’uomo moderno, non sembrano immuni da quella inguaribile follia che serpeggia come un virus nel pazzo, pazzo mondo di Mad Men.
E guardandoli tornano davvero in mente le parole di Mad World, perché li osserviamo correre in cerchio, indefessi, incapaci di dare una svolta alle proprie esistenze, incapaci di guardarsi dall’esterno e di capire cosa c’è che non va, e qual è il motivo profondo che li spinge a un destino di disperata infelicità.
Così se Betty Draper vive una vita di plastica nella sua casa perfetta con la sua perfetta, algida bellezza alla Grace Kelly, il vuoto annichilente che la divora da dentro è metafora dell’insoddisfazione strisciante che iniziava a turbare l’inconscio delle donne della sua generazione, non ancora consapevoli di se stesse e del ruolo che avrebbero potuto rivendicare nella società.
Poco amore da parte di Don, poche parole, pochi gesti, solo una facciata di perfezione sempre più difficile da tenere in piedi.
Perché Don è incapace di dare, anzi di darsi, perché non riconosce nemmeno se stesso e di conseguenza non può davvero entrare in contatto profondo con nessuno.
E il medesimo destino sembra essere toccato in sorte un po’ a tutti i protagonisti di Mad Men, incapaci di direzionare quella loro folle corsa e di saziare quella fame divorante di sogni, di successo, di desideri cui non sempre riescono a dare un nome.
Così se Betty rappresenta il femminile in gabbia e la nevrosi derivante dalla repressione degli istinti, al contrario la copywriter della Sterling & Cooper Peggy Olson è emblema di una nuova figura di donna, che dimostra di non aver paura di avventurarsi lungo la ripida strada dell’emancipazione in un mondo di uomini che non la ritengono all’altezza. Anche a costo della solitudine, anche a costo di venire a patti con sacrifici inimmaginabili e di soffocare sentimenti e pulsioni sull’altare dell’efficienza.
E votato allo scacco e a questo peregrinare privo di scopo sembra essere anche il personaggio di Pete Campbell, sulla carta giovane account ambizioso e privo di scrupoli, in realtà la quintessenza dell’insicurezza, dell’angoscia esistenziale e di un bisogno quasi malato di autenticità.
Dunque gli interrogativi metafisici che si pongono ai protagonisti di Mad Men sono sempre i medesimi. Chi siamo? Dove stiamo andando? C’è un senso profondo dietro a questo nostro dolore?
I sogni folli del consumismo, quella strana creatura figlia del boom economico del dopoguerra, sembrano troppo effimeri per riuscire a colmare il vuoto che tormenta questi personaggi, che vediamo vagare sperduti tra le strade brulicanti della metropoli come sulla scena di un dramma di cui non conoscono il copione.
In questo senso il mondo artefatto della pubblicità è la perfetta metafora della dicotomia che si crea tra apparenza e sostanza. Gli slogan incisivi, le immagini a forte impatto visivo, i jingle orecchiabili, il concetto stesso di sogno americano venduto sul fondo di una lattina di Coca Cola. Tutto concorre alla creazione di un desiderio che va spacciato per ciò che non è, perché in fin dei conti non riesce a colmare quell’abisso di solitudine che è l’unica, vera casa di ciascuno dei protagonisti di Mad Men.