Sono gli istanti finali a dirci la verità di un momento, perché la fine è forse la parte più importante di qualsiasi storia. È il risultato delle scelte del passato, delle coincidenze che spesso sembravano inaspettate, è la fine del mondo che squarcia il velo di Maya e si apre alla vera umanità. Nel punto finale della freccia che conclude il viaggio di Manhunt c’è il terrore che finalmente prende vita e una delle infinite possibilità che si realizza e spazza via tutte le altre. La fine della freccia è la congiunzione dei due personaggi, inizialmente in opposizione, ma mai troppo diversi, mai troppo lontani.
La fine è forse in questo caso più importante del viaggio, ne coglie il senso e completa il capolavoro. Ogni tassello ha trovato il suo posto, il grande quadro si è finalmente presentato a noi come la fine di una storia interessante e profonda. Senza anche solo uno di questi piccoli frammenti sarebbe stato impossibile capire tutto fino in fondo. Ogni dettaglio ha permesso la costante riflessione e la decisione finale. E il semaforo rosso alla fine dell’ultimo episodio è la conferma che, dopotutto, è necessario fermarsi, anche indipendentemente dalla nostra volontà. Perché qualcuno o qualcosa ce lo impone o semplicemente perché ne abbiamo bisogno, anche se davanti a noi non ci sono pericoli e la strada è deserta.
Ted è riuscito nel suo intento, ha rivoluzionato il modo di vedere le cose, attraverso il linguaggio e il suo studio sulla deriva della società ha sensibilizzato la coscienza comune. E dopo Manhunt, inevitabilmente anche la nostra.
Siamo stati nell’ombra fino al sesto episodio, quando abbiamo visto il vero Ted, il suo passato e le cause che hanno permesso l’evoluzione di un uomo solo e distaccato. A questo punto viene quasi automatica la menzione a Mindhunter e all’importanza del passato nella vita di un serial killer.
Il tempo a cui guardiamo nell’ultima puntata di Manhunt però è il presente, messo in scena come due viaggi differenti. Da una parte quello di Unabomber, verso la condanna in un carcere di massima sicurezza, dall’altra c’è James, che non ha ancora una meta. Il suo viaggio finisce davanti al semaforo rosso, nello stop dell’isolamento e dell’inutilità della tecnologia.
In fondo il manifesto di Unabomber si è rivelato un elegante preludio al futuro della società tecnologica. Ma la personalità di Ted è completamente altrove. Sospesa tra una diagnosi di schizofrenia paranoide mai confermata e la volontà di dimostrare con i fatti le sue parole.
La fine di Unabomber è il dettaglio che completa un’opera straordinaria. Non dà certezze, ma un quadro assolutamente completo, mette in luce un particolare dopo l’altro costruendo il personaggio di Ted Kaczynksi a tutto tondo. Dà quindi spunti di riflessione che ognuno di noi percepisce e sfrutta, soprattutto alla fine della sua storia.
Immagina ancora una volta la libertà. Fuori dalla sua casa in montagna, lontano da tutti e da tutto e vicino solo a se stesso. Ballando nella pioggia e trovando la felicità a contatto con la natura e la presenza primordiale dell’uomo. Perché è lì che tutto si è bloccato, il primo abbandono, il primo tradimento. Rivive la vita prima di quell’evento, in eterno, in quel ballo c’è la felicità innocente e innocua di un ragazzo che è rimasto lì e che è stato lasciato in quella foresta.
Sembra non poter essere nulla in confronto alla sedia elettrica, eppure è nella foresta che si è persa la normalità di un uomo. Nell’incontro e nell’abbraccio con la natura. È rimasto solo e nella solitudine ha trovato il suo equilibrio. Solo con se stesso, ma la società è lì, intorno a lui e non può essere ignorata per sempre, Ted ha cercato un modo per resistere e sopravvivere, il modo sbagliato, ma l’unico possibile per lui.