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Manhunt: Unabomber ci regala il migliore episodio dell’anno

Mindhunter
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Fino al sesto episodio Manhunt: Unabomber ci aveva restituito un racconto tutto incentrato sulla neonata disciplina della linguistica forense. Lo aveva fatto in maniera scolastica, stanca e per certi versi imitatoria di Mindhunter. Complice anche un interprete principale, Sam Worthington, piatto e privo di magnetismo, la Serie non aveva brillato. Questo fiacco procedere sembrava aver infettato anche il piano registico, mai degno di un’inquadratura scenograficamente valida.

Mai ci saremmo aspettati che quello che avremmo trovato di fronte a noi sarebbe stato il miglior episodio dell’interno anno.

Sembrerà un’esagerazione, senz’altro può essere vista come una provocazione ma “Ted”, questo l’eloquente titolo della 1×06 di Manhunt: Unabomber, è un piccolo capolavoro. “Ted” altri non è che Theodore Kaczynski, Unabomber. Ma ora, per un istante, per un momento appena diventa solo Ted. Cade così il velo sull’attentatore e ci viene restituita la drammatica, contraddittoria e profondissima immagine dell’uomo. Dietro quella maschera, dietro il ‘mostro’ scopriamo l’essere umano. Scopriamo semplicemente Ted.Manhunt: Unabomber

E questo avviene senza patetismi, senza compassione, senza facili giustificazioni. La storia che ci viene presentata è la ricostruzione che ne fa lo stesso Kaczynski, accompagnata dai suoi intermezzi, dalle sue riflessioni. Questi pensieri sono affidati alla penna e alla dolce confidenzialità di una lettera rivolta al fratello. Ci caliamo delicatamente nella vita del vero protagonista di Manhunt: Unabomber. Ne ricostruiamo i passaggi salienti. Ci fermiamo a riflettere sui suoi dubbi e sulle difficoltà di un ragazzo che diventa incoerentemente uomo. La camera da presa accompagna ogni cosa, diventa fedele interprete non tanto della narrazione quanto dell’interiorità di Ted. Ogni dettaglio, ogni simmetria ricostruiscono un quadro interiore in cui primeggia un grandioso Paul Bettany nel ruolo del dinamitardo.

Si scava a fondo, si analizzano le problematicità di un ragazzo particolare. Un ragazzo strappato alla gradualità della crescita.

Catapultato in un mondo diverso e in cui non può che essere irrimediabilmente solo. Ted è solo. Lo è sempre, in ogni epoca, in ogni momento. Lo è per le sue quasi innate difficoltà a socializzare, lo è per la sua brillante mente che lo rende inarrivabile alla massa. Ma lo è anche perché non sa amare e di ricambio essere amato. Così i fallimenti e le delusioni sono vissuti come tradimenti e motivi di vendetta. Il dolore per l’abbandono del suo primo, unico, amico si riattualizza nel ‘tradimento’ del fratello. In quel rinnegamento del loro rapporto, del loro essere da soli contro il mondo. Così a causa di una donna perde anche lui. Ma lo capiamo chiaramente: c’è qualcosa di fallato in questo ragionamento. Qualcosa di fastidiosamente dissonante.

È la solitudine di Ted, la sua disperata ricerca di rapporti e relazioni che lo porta a percepire ogni distacco come una perdita. Ogni cambiamento come un male. Ha bisogno di una stabilità emotiva che non troverà mai, che non potrà mai raggiungere. È solo. Anche quel professore universitario che diventa sua figura di riferimento, che rappresenta un confidente e una valvola di sfogo al suo bisogno di comunicare con l’altro finisce per rinnegarlo. Ted si scopre manipolato, cavia di un sistema indifferente, magistralmente esemplificato nella Serie dagli agenti governativi che parlano col professore.

Matura così in lui la rabbia dell’uomo rifiutato, del reietto della società, di chi disperatamente ha cercato comprensione e ha trovato solo indifferenza.

Quella rabbia si canalizza e si indirizza contro la tecnologia, contro un sistema de facto che non ammette il pensiero divergente. “Ci vuole una grande forza e coraggio per essere diversi da tutti gli altri”, confiderà Ted a Tim. È quella rabbia a muoverlo, a spingerlo a intraprendere una battaglia che altri non è che un grido disperato. Un urlo e una richiesta d’aiuto lanciata al mondo, indifferente e sordo al suo dramma. Ted costringe il mondo ad ascoltarlo, impone se stesso con la forza laddove non vi era riuscito con la socialità. Il “manifesto” non diventa altro che espressione sublimata della sua urgenza di comunicare.Manhunt: Unabomber

Eppure, Ted, almeno il Ted che ci viene presentato in Manhunt: Unabomber, potrebbe intraprendere un cammino diverso. Una strada nuova. Ha ottenuto l’attenzione che ha sempre voluto. Il suo compito di diffondere il suo pensiero di critica al degradante sviluppo economico moderno è compiuto. Ha lanciato una nota sull’archetto del suo violino e quella nota è stata ascoltata e presa in considerazione da tutti. Il racconto rallenta, la telecamera indugia dolce sul suo magnetico protagonista. Si sofferma sulla danza di un uomo fuori dagli schemi, sui pensieri fugaci di una vita serena. Di una vita che poteva essere. Di una vita che può essere.

In quel mondo onirico di desideri e speranze si crogiola lo stesso Ted.

Il tempo che ho impiegato a distruggere è quello che avrei potuto impiegare a formare una mia famiglia. Avere un figlio, qualcuno a cui essere d’esempio, qualcuno da poter… amare”.

Scorrono nel silenzio assordante le istantanee di un mondo tranquillo, di una donna felice e amorevole. Di un figlio tenuto in braccio e istruito, cresciuto nella tranquillità di una natura benigna.

Chi dice che i miei sogni almeno stavolta non si trasformino in realtà?”, sembra sussurrare Ted mentre spalanca la porta verso un futuro ancora possibile. Ancora plausibile. “Ho rinunciato a tutto questo per ottenere rispetto ma quello che voglio davvero è…”.

Anche e soprattutto il non detto domina in questo capolavoro di quaranta minuti. I rimpianti di una vita gettata, di un’esistenza votata alla rabbia e all’affermazione piuttosto che all’amore. I volti di un futuro che sarebbe potuto essere si sovrappongono così al presente di un rapporto ancora possibile, quello col piccolo Tim. Con quel ragazzo in cui pure lui stesso si rivede. In cui rivede il fratello che aiutava nei compiti. In Tim sedutogli a fianco si rinnova così quell’immagine familiare.

Nel giovane ripone la finale speranza affidata all’ennesima relazione della sua vita. La disgraziata fede nell’altro. Nella possibilità che tutto cambi.

Il mio passato non deve decidere quale sarà il mio futuro, giusto? Posso ancora crescere, posso ancora cambiare. Non è vero?”. Così quella rabbia incontrollata che non si placa, che non trova mai pieno sfogo dopo ogni bomba, lascia per un momento il posto ad altro. Alla costruzione dell’ordigno, simbolo dell’ingegno che distrugge, si sostituisce la realizzazione della rudimentale pianola, emblema della sua genialità messa al servizio della costruttività.

Ma Ted non salta il fosso, non può farlo. Si condanna definitivamente a essere Unabomber assecondando il suo istinto più viscerale, quella pulsione nichilista al fallimento. Davanti a lui è l’immagine della tecnologia. Di quello sviluppo incontrollato che lo rende obsoleto, superfluo, inutile. Il suo regalo non può reggere il confronto con quel piano elettronico capace di produrre i suoni più elaborati tramite un semplice tocco.Manhunt: Unabomber

Ted fugge. Si allontana e allontana da sé l’immagine idealizzata di un futuro che non diventerà mai presente, che non si materializzerà mai. Lui sarà sempre vittima, nella sua logica. È qui la grandezza del sesto episodio di Manhunt: Unabomber, nell’indurci continuamente a simpatizzare e contestualmente a prendere le distanze da Ted. Non possiamo non sentirci intimamente legati a lui e alla sua sofferenza ma nello stesso tempo percepiamo la discrasia delle sue idee. Perché quel fratello non lo ha mai rinnegato solo perché ha trovato l’amore. Quella madre non lo ha infangato. E la pianola sarebbe stata apprezzata perché realizzata da lui stesso e non commerciale prodotto da negozio di giocattoli.

Ma questo Ted non lo sa, non può saperlo. La paura e l’odio hanno vinto e così l’amore sparisce definitivamente dalla scena lasciando solo il vuoto di un uomo rabbioso col mondo e con se stesso. Lasciando solo Unabomber.

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