L’equilibrio è un’allucinazione, una tentazione dell’uomo medio che cerca conforto nella normalità. Maniac parte da un’illusione, dalla realtà spiegata attraverso la fantasia.
L’ambientazione è sotto l’influenza degli anni ’80, ma impregnata di una tecnologia soffocante che ormai non ha più limiti evidenti. Le pubblicità personalizzate che offrono l’occasione della vita, o la felicità in un nuovo partner. Tutto sembra essere finalizzato al nulla, un affaccendamento afinalistico che in apparenza sembra aver fatto progredire la civiltà, ma che poi, se la studiamo con sguardo attento, non dà nulla e riceve solo rassegnazione.
Maniac è la storia truce e distopica dell’animo umano. Strappa la trama dalla biografia di Annie e Owen, la racconta distorcendola e giocandoci su, per poi rimetterla esattamente dov’era, anche se ormai quasi completamente distrutta.
È una storia che ormai da tempo viene raccontata. Quella delle malattie mentali. Ma questa serie tv è l’apoteosi della verità. Non si limita a tradurre visivamente gli effetti di una disfunzione, li applica al mondo in cui vivono i due protagonisti, nulla rimane fuori dal delirio. È anzi il nulla a essere innalzato a verità.
Nonostante la trasposizione perfetta nella sua voglia di ricostruire la follia umana, Maniac ha avuto poco in termini di riconoscimenti della critica, ma anche del passaparola del pubblico. Non se ne è parlato abbastanza e questo dato contribuisce a tenere ancora sottobanco una serie che meriterebbe di essere scandita nelle sue tematiche e studiata a fondo.
In dieci episodi abbiamo la consapevolezza di essere stati testimoni di tantissime esperienze e sembra quasi che questo ci dia la possibilità di viverne di infinite. Non è tanto il ‘vedere oltre‘ quello che ci viene mostrato, l’intensità di Maniac sta proprio nel far vedere tutto, nel mostrare ogni piccolo dettaglio che stravolge e ricompone lo scenario in maniera casuale. Il rischio è quello di confondere e non far comprendere nulla, ma la malattia mentale segue la logica del c’è tutto, voglio tutto, ho bisogno di tutto, mi prendo tutto e non è mai abbastanza. Ed è la stessa razionale onda di pensiero che guida la narrazione della serie.
Potrebbe sembrare un prodotto d’élite, complesso nella sua costruzione e artificioso nella composizione delle scene. Eppure, la geometria dell’intricato schema di Maniac segue un percorso ben definito, episodio per episodio, tema per tema.
Al pari di altre serie andrebbe consigliata come visione quasi terapeutica, come genuino sonnifero all’insofferenza che non è patologica. Come spiegazione veritiera della sua stranezza del mondo interiore di chi vive e sopravvive alla malattia mentale. Valida nella sua difficoltà registica e curativa nella nera ironia, potrebbe effettivamente risultare indigesta a molti. Cary Fugunaka mette in scena l’idea di Patrick Somerville in maniera stilisticamente impeccabile, risalta l’incomprensibile e lo rende perno della trama.
Non è quindi una serie che in potenza attrae generi diversi di pubblico è vero, ma siamo di fronte a qualcosa di veramente magnifico. A una trasposizione che ha dell’originale e del vero, una storia raccontata già tante volte, ma in maniera sempre diversa. Questa volta la narrazione è eccelsa nella sua rarità e attira la mente dello spettatore proponendo una realtà diversa ma in qualche modo vera.
Racconta attraverso i sensi esattamente ciò che succede nella mente umana, magari con spettacolarizzazioni estreme rispetto al lavoro mentale, ma l’estremo è soggettivo e quello che pensiamo non possa accadere è probabile che sia già accaduto ad altri. Maniac è quello che accade, indipendentemente da come crediamo vadano le cose e da quanto il mondo che viene raffigurato possa essere lontano dal nostro.