Il mare è l’anima di Napoli. Un legame indissolubile e inscindibile. E il mare in una serie tv ambientata a Napoli rappresenta dunque un personaggio a se stante. Un personaggio con cui prima o poi dovrai confrontarti, con sfaccettature proprie, con i suoi punti deboli, con i suoi limiti. Il mare è il vero protagonista – nemmeno troppo silente – di Mare Fuori e interagisce in maniera diversa con ognuno degli altri personaggi.
È rifugio, per Filippo e Naditza. È catarsi, per Pirucchio. È morte, per l’ex di Gemma. È scala sociale per Silvia. È salvezza, per Edoardo. È rinascita per Paola. È coscienza per Carmine. È hybris, per Ciro. È nemesis, per Massimo. È conflitto, per Rosa. È in sostanza, il fine e il mezzo di ogni personaggio che, oltre le sbarre dell’IPM vede in quella tavola azzurra soprattutto la propria concezione di riscatto.
Ce lo ricorda anche l’ottima fotografia, con il contrasto nettissimo tra i colori caldi al di qua del mare, fuori dall’Istituto, e quelli freddi al di là, nel contesto comunque cupo e brutale di un carcere minorile.
Questa componente simbolica è l’epicentro di Mare Fuori. Anzi, è il pilastro fondante ed è ciò che prima di tutto spiega la riuscita di questo esperimento targato Rai, un unicum rispetto a tutte le altre produzioni, anche le più coraggiose. Questo mare, da cui tutto parte e a cui tutto torna, è ciò che conferisce complessità a un prison drama solo apparentemente fatto per adolescenti.
Che cosa ci trovate di così bello in Mare Fuori?
Questa domanda accompagna e accompagnerà ogni grande successo mediatico, sia esso una serie, un film, un pezzo musicale. Normalmente è una provocazione e in quanto tale non vale la pena soffermarvisi, poiché il tone of voice non predispone a un dibattito sereno. Tuttavia il successo di Mare Fuori è tale che può invece risultare molto interessante capire perché stiamo parlando di un fenomeno di culto con pochi eguali nel nostro paese.
Ovviamente tenendo conto di alcuni limiti, anche grossi ed evidenti, che questa serie ha (e d’altra parte sarebbe stato strano il contrario). Alcune forzature nella trama, un occhio a volte fin troppo ammiccante al fan-service, scene d’azione non sempre credibili e sprazzi di locura perché di quella non ci libereremo mai fino in fondo. È parte della nostra cultura e in fondo va bene così.
Questi problemi sono in gran parte spiegabili anche con il budget destinato alla serie. La seconda e la terza stagione di Mare Fuori sono costate insieme quanto La Vita Bugiarda degli Adulti, miniserie di 6 episodi che ha avuto non troppo successo di critica su Netflix. La terza stagione, che ha conosciuto un upgrade economico, è costata comunque meno di serie finite prestissimo nel dimenticatoio, come Luna Nera o Zero.
Nonostante un budget non troppo elevato per gli standard italiani, Mare Fuori ha saputo fare di necessità virtù.
A differenza delle sovrastrutture che ci offre l’interpretazione simbolica del mare, la morale di questa serie non è particolarmente complessa. Questo, ovviamente, non è un male e nemmeno un limite se a sostenerla ci sono dei pilastri solidi. La prima cosa che balza all’occhio, infatti, è la crudezza di alcune scene, sbattute in faccia allo spettatore senza compromessi. Di rado vi sarà capitato, ad esempio, di vedere una scena in cui un personaggio mangia il proprio cane, macinato nel ragù.
Siamo tutti d’accordo che sia una scena parecchio disturbante e sopra le righe, ma che assume perfettamente senso nel contesto che ci è stato delineato. Lo pretende la ricchissima letteratura sui prison drama che abbiamo importato dagli Stati Uniti, da Oz a Prison Break, passando per Orange is the New Black. Siamo pur sempre in una prigione e i detenuti, per quanto minorenni in larga parte, hanno conosciuto la degradazione morale prima, dopo o durante la reclusione.
Rispetto a un’altra serie Rai molto bella e dall’indubbio fascino come La Porta Rossa, pertanto, emerge questa volontà di osare, di spingersi più a fondo rifiutando le scorciatoie. Questo, per esempio, spiega perché la terza stagione della serie con Lino Guanciale appaia sottotono, quasi superflua rispetto alle prime due, mentre Mare Fuori è giunta alla terza con ancora una certe freschezza e le potenzialità di poter raccontare ancora tantissimo.
Emergono poi altre due, tre caratteristiche che elevano Mare Fuori al di sopra di altre produzioni Rai e anche di gran parte di quelle nostrane
L’utilizzo della colonna sonora in questa serie è semplicemente spettacolare. C’è un tema ricorrente, ci sono musiche ricorrenti e che sembrano sempre fatte apposta per quello specifico momento a cui fanno da sottofondo. Una soundtrack struggente, la cui sigla è solo la punta dell’iceberg. Una varietà di sonorità che si presta a un pubblico molto frastagliato (e ciò spiega anche il grande successo in termini di stream dei brani più famosi). D’altra parte la musica, come il mare, è essenza della serie.
Laddove la colonna sonora è una qualità intrinseca degli autori, merita una menzione speciale la scelta del cast, fin troppo spesso tallone d’Achille delle produzioni italiane. Tutti gli attori sono particolarmente bravi e, con le loro interpretazioni, riescono a reggere o elevare intere scene. Una per tutte che vale la pena menzionare è quella della morte di Pirucchio, con una performance quasi teatrale degli attori Nicolò Galasso e Alessandro Orrei.
Un tempo avremmo considerato Mare Fuori una delle migliori serie italiane, al pari di Romanzo Criminale o Gomorra. Oggi il panorama italiano è diventato altamente competitivo: Bad Guy, Christian, Bang Bang Baby, Esterno Notte, L’Amica Geniale, la stessa Porta Rossa sono lì a prendersi il loro successo di critica e pubblico, senza più il bisogno di doversi accontentare delle briciole. E poi c’è Mare Fuori che, con le sue caratteristiche così chiare e definite, nel bene e nel male, sfugge a queste logiche di comparazione per diventare una cosa a se stante.