L’attesa è stata lunga e l’impressione è che non sia ancora terminata. Mindhunter 2 è finalmente uscita e ha trascinato gli spettatori in una spirale di orrori e brutalità che s’imprimono nelle retrovie dell’inconscio.
Ci eravamo lasciati con l’unità di scienze comportamentali sospesa in un limbo tra la necessità di affermare la dignità dell’impianto procedurale che stava sviluppando e la consapevolezza di utilizzare metodi che potevano essere considerati discutibili. L’epilogo della prima stagione ci ha mostrato Ford nel pieno di un attacco di panico per aver conosciuto l’orrore nell’abbraccio delle tenebre di Ed Kemper e Tench che si barcamenava tra la fiducia nell’istinto del suo partner e il timore di aver perso credibilità (e dunque sostegno materiale dall’ente governativo al quale l’unità faceva capo) dopo l’indagine degli Affari Interni.
Mindhunter 2, uscita lo scorso 16 agosto su Netflix, trascina lo spettatore giù per una discesa infernale.
In una strada costeggiata da mostri della porta accanto e corpi putrefatti. Lo show Netflix procura in chi lo guarda una tensione crescente che non sfocia mai in un’azione appagante ma si continua ad alimentare a ogni lento movimento della macchina. L’orrore non viene raccontato da riprese al cardiopalma e scene concitate. La narrazione delle brutalità compiute dai criminali presi in esame in questa seconda stagione viene delegata ai protagonisti.
Ford, Tench e Carr, nell’eco dei loro passi che risuonano come un metronomo tra le pareti del seminterrato, base delle loro ricerche, ci presentano i casi presi in esame. Lo fanno analizzando crimini raccapriccianti e abusi disumani compiuti da uomini che “non sanno elaborare ciò che capita loro” come ci aveva spiegato l’accademica Wendy Carr nella prima stagione.
Mindhunter 2 predilige chiaramente il dialogo all’azione, ma non lesina immagini disturbanti e atmosfere tese.
Le sfumatura del giallo e del grigio che inondano la scena suggeriscono l’idea di vintage e allo stesso tempo di rancido. Già dalla sigla (in questo articolo le più ricche di significato delle serie tv) della seconda stagione si percepisce che quello che stiamo per intraprendere non è un viaggio, ma una discesa negli abissi del pensiero umano. Alle classiche immagini della sigla della prima stagione, con la preparazione dei nastri per le interviste, si alterna la visione a tratti di corpi orrendamente mutilati, polsi legati, vermi che banchettano sotto gli occhi vitrei di una donna con un insetto al lato della bocca spalancata come in un urlo disperato.
La sigla di Mindhunter 2 rappresenta il marcio che s’insinua nelle menti e si attacca ai pensieri, anche a quelli più ordinari.
Ora che Tench e Ford hanno guardato negli occhi la bestia, hanno scoperto che anche la bestia può guardare dritto nei loro occhi. Nell’attesissima intervista al personaggio di Charles Manson (ennesima conferma di un lavoro di casting e trucco eccellenti) pareva che Tench fosse messo a nudo dallo sguardo affabulatorio del falso profeta. Manson aveva visto la bestia negli occhi di Bill Tench, ma quella bestia non era altro che il riflesso di ciò che l’agente speciale aveva scoperto su suo figlio.
L’introduzione dell’agghiacciante vicenda del piccolo Brian in Mindhunter 2 rivela quanto sia difficile mantenere alta la guardia nell’ambito familiare, una volta smessi i panni dell’FBI. Il messaggio veicolato è chiaro e brutale: Bill ha perso in partenza. Se in tempi non sospetti avesse apertamente collegato il comportamento taciturno e poco propenso alla socialità di Brian a un principio di sociopatia (ma quale serie ne affronta meglio il tema del disturbo mentale?) e dunque richiesto un aiuto specialistico sarebbe stato accusato di essere ossessionato dal lavoro e poco lucido.
L’onta di non averlo fatto invece, lo pone sul patibolo del senso di colpa e dell’inconsapevolezza.
“Proprio lui non si è reso conto di nulla?”
Quella che è senza dubbio la storyline più interessante di Mindhunter 2 ci ha consegnato un Tench più cupo e pensieroso, ma comunque in grado di ragionare per compartimenti stagni. L’agente speciale è rimasto presente sul lavoro e ha cercato di rimanere presente nella sua famiglia. Si è vestito da mattatore durante le occasioni pubbliche di lavoro, sorridendo e raccontando aneddoti come se recitasse un copione.
Poi, lo abbiamo visto correre e affannarsi nel tentativo di tenere in equilibrio il suo mondo prima che andasse in frantumi. Nel frattempo nella seconda stagione della serie prodotta tra gli altra da David Fincher (che ha anche curato la regia dei primi tre episodi) abbiamo dato uno sguardo alla vita privata di Wendy Carr e alla sua gestione delle interviste ai criminali senza Ford e Tench. L’indole della Dottoressa Carr troppo incline al controllo e all’analisi di ogni individuo di fronte a lei come di un caso clinico, si riverbera chiaramente su ogni aspetto della sua vita.
Ma se nel lavoro, con un Gregg poco utile a farle da spalla (preferibilmente) muta, tutte queste caratteristiche vanno a suo vantaggio, nella vita privata il risultato dei suoi capricci è la solitudine. In Mindhunter 2 abbiamo visto Ford troppo impegnato a sbrogliare la terribile matassa di dolore e atrocità degli Atlanta Child Murders per avere nuovi attacchi di panico.
Escludendo il finale del primo episodio infatti, Holden sembra essere tornato in sé nel corso della stagione e aver concentrato tutte le sue energie nella risoluzione di un caso che ha sconvolto l’America e che ancora oggi è una ferita aperta nel cuore di Atlanta.
In Mindhunter 2 lo abbiamo visto riprendere la sua routine e riacquistare la sua sicurezza.
Il profilo del colpevole delle sparizioni e poi degli omicidi di decine di ragazzini che Ford ha elaborato nel corso della stagione, si è andato a inserire in un contesto politico estremamente delicato. Per i genitori delle vittime l’idea che quelle atrocità non fossero commesse dal Klan sembrava bruciare come una ferita aperta.
Difficilmente chi commette questi crimini valica il confine razziale
Per Ford si trattava di una certezza ben prima che la verità processuale prendesse il posto di quelle che per molti erano accuse infondate, un tentativo di gettare sabbia negli occhi. Così il caso dei ragazzi della Georgia ha dilatato il tempo narrativo della serie, conducendoci fino al 1981, l’anno della cattura di Williams. Mentre ci accompagnava nei meandri più oscuri di Atlanta e dell’animo umano a ritmo di motown, Mindhunter 2 ci ha schiaffeggiato con suoni graffianti ben inseriti nel contesto cupo delle vicende raccontate.
L’inizio e la fine di questa seconda stagione sono stati affidati a sconcertati immagini di BTK. Il killer seriale che ha rappresentato una delle pagine di cronaca più dolorose degli Stati Uniti. È lecito dunque pensare che se vi saranno prossime stagioni della serie, si concentreranno anche sulla vicenda dell’omicida del Kansas.
Per ora la serie tv sceneggiata da Joe Penhall ci ha dato solo qualche assaggio della storia di BTK. Abbiamo scoperto qualcosa in più sulle sue perversioni e sul ripugnante mondo nascosto dietro ai suoi occhiali e all’aspetto da persona comune. Da qui ripartiremo, si spera, con la terza stagione di questa serie tv che tra gli altri ha il merito di affidare al piccolo schermo un’opera crime inconsueta nel suo essere poco incline agli stereotipi da giallo made in USA e molto attenta ai particolari.
Dalla fotografia affidata ad Erik Messerschmidt, in grado di valorizzare ogni angolo della scena; ai dialoghi efficaci e pungenti tra i protagonisti, ogni episodio ha rappresentato una perfetta nota della sinfonia. Una sinfonia che abbiamo atteso per quasi due anni e che, adesso lo sappiamo, valeva ogni singolo giorno d’attesa.
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