Non si tratta di un problema serio, intendiamoci. La seconda stagione di Mindhunter ha soddisfatto le aspettative di tutti i fan che hanno atteso pazientemente per due anni l’uscita del nuovo capitolo. Per trovare questo problema bisogna essere estremamente pignoli ed esigenti. Non che Mindhunter sia una serie per tutti, ma qui si tratta proprio di scovare il proverbiale pelo nell’uovo.
Fatte le dovute premesse, cominciamo col dire che la seconda stagione forse è addirittura migliore della prima. Una volta familiarizzato con serial killer, agenti FBI e scene del crimine, abbiamo il giusto pelo sullo stomaco per goderci la storia e il magistrale tratteggio dei personaggi.
Mindhunter ci reintroduce nella storia nel punto esatto in cui avevamo lasciato i personaggi. Holden sull’orlo del tracollo mentale, Bill arrabbiato per la fuoriuscita di informazioni dal laboratorio e Wendy alle prese con la difficoltà di essere un pesce fuor d’acqua. Ed è nel corso dello sviluppo di questi personaggi che si manifesta per la prima volta il problema della seconda stagione.
Bill intraprende un percorso di introspezione a tratti drammatico che lo porterà a scontrarsi con la possibilità di avere un figlio fortemente disturbato. Wendy, attraverso l’inizio e la fine repentina di una relazione, acquisisce più sicurezza in se stessa, corroborata anche dalle interviste che inizia a condurre con i killer. Holden è l’unico protagonista che, rispetto alla prima stagione, non ha un’evoluzione così marcata, nonostante le premesse fossero assolutamente incoraggianti.
Aspettiamo fino alla fine un altro crollo emotivo, o il riconoscimento definitivo della sua autorità di agente, ma questo non avviene.
Il discorso sulla sanità mentale di Holden è rimandato a data da destinarsi. Ma anche per quanto riguarda il personaggio di Bill, qualche sfumatura della sua evoluzione è lasciata in sospeso. A metà della seconda stagione Mindhunter sgancia il pezzo da novanta mostrandoci un lato nascosto del bambino che Bill e Nancy hanno adottato. Potrebbe non essere solo un ragazzino estremamente riservato, chiuso, forse con una forma di autismo, ma un vero e proprio killer in erba. Dietro il suo comportamento anomalo potrebbe celarsi un modo diverso di elaborare sensazioni ed emozioni che conducono a manifestazioni violente.
Potrebbe, ma non ne avremo la certezza, almeno fino alla prossima stagione di Mindhunter. Perché il capitolo sul bambino di Bill ci viene presentato e approfondito fino a un certo punto. La storyline di Atlanta si prende una buona parte del tempo che si sarebbe potuto dedicare a questo personaggio, e le risposte tardano ad arrivare.
Anche BTK, la presenza che dalla scorsa stagione aleggia su Mindhunter, in questa sfilza di puntate è molto meno presente, soprattutto quando ci avviciniamo al finale, frangente quasi interamente occupato dal caso dei bambini di Atlanta. Non che ci aspettavamo chissà che sviluppi, anche perché sarebbe una forzatura storica. BTK infatti verrà preso negli anni Duemila, molto dopo l’inizio delle ricerche condotte dalla squadra del seminterrato. Ma la sua presenza nella seconda stagione di Mindhunter, essendo più sporadica, pare quasi significare “non dimenticatevi di lui“, più che avere un vero scopo ai fini della trama.
Insomma, il problema della seconda stagione di Mindhunter è che, semplicemente, c’è troppa carne al fuoco.
Il che, come ribadiamo, non significa che non sia una stagione all’altezza, se non per certi aspetti superiore alla prima. Ma forse la sceneggiatura ha voluto investire su troppi personaggi con le rispettive storyline spesso non lineari e diramate, senza portare a termine la maggior parte degli interrogativi che questa scelta fa scaturire.
Non ci aspettavamo certo la soluzione a tutte le domande messe in campo dalla prima e riprese dalla seconda. Ma la sensazione a caldo dopo la conclusione è quella di aver assistito alla preparazione di una storia molto complicata che apre numerose parentesi e che sceglie volutamente di non chiudersi. Compito che, ci auguriamo, spetterà all’attesissimo terzo capitolo. Col rischio, però, di doversi trovare davanti un lavoro mastodontico, oltre a quello già non semplice di dover mandare avanti la storia con nuovi sviluppi.
Lo specifichiamo un’ultima volta: nel complesso di una seconda stagione assolutamente impeccabile da più punti di vista, questo difetto viene sicuramente ridimensionato. E potrebbe anche non trattarsi di un vero difetto, dal momento che la terza stagione potrebbe rispondere a tutti gli interrogativi lasciati a metà.
L’unica preoccupazione è di dover nuovamente aspettare due anni per avere altri episodi. Certo, se i risultati sono quelli a cui abbiamo assistito, si deve e si fa. Ma la tempistica, in tempi di binge watching in cui le serie sono divorate e presto dimenticate, fa la sua parte anche con gioielli come Mindhunter. Ed è forse questo, in definitiva, l’unico vero problema di questa serie.