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L’essenza di Mindhunter

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Prendete un’opera, spogliatela, levatele ogni sovrastruttura e contingenza, ogni decoro messo lì per vendervela, per farvela piacere, ogni colore, posa e aggettivo, toglietele le date, i riferimenti, le citazioni, i nomi, i luoghi, le coordinate e quella cosa amorfa, un po’ sfumata che vi rimarrà è esattamente il punto a cui vogliamo arrivare: l’essenza.

mindhunter

Mindhunter è una Serie Tv praticamente perfetta, ma da David Fincher (regista di Seven, Fight Club, Zodiac, The Social Network, Il curioso caso di Benjamin Buttom, L’amore bugiardo – Gone Girl, per dirne alcuni) non ci si può aspettare diversamente. La serie nasce dal libro Mindhunter: La storia vera del primo cacciatore di serial killer americano, scritto da Mark Olshaker e John E. Douglas. Siamo negli anni ’70 e il protagonista è tale Holden Ford, che di lavoro fa il negoziatore nell’FBI, il quale si ritrova, insieme all’agente Bill Tench e all’accademica Wendy Carr, a studiare un nuovo tipo di assassino, quello che oggigiorno conosciamo come serial killer: si tratta dei primi profiler dell’FBI. I personaggi sono fittizi, ma si basano su persone reali e questo deve semplicemente indurci a prestare ancora più attenzione.  Le vicende originano nella frustrazione di chi si rende conto di non conoscere fino in fondo l’oggetto (soggetto) del proprio lavoro.

Holden tratta con i criminali, ma li conosce davvero? Capisce fino in fondo la loro lingua? Riesce a comunicare con loro attraverso schemi e alfabeti che appartengano a entrambi o sta parlando in un’altra lingua?  Holden sa con chi parla? 

Mindhunter è un thriller, ma si discosta di lunga misura da ciò che siamo abituati a guardare. E ci racconta anche la svolta che c’è stata nel modo di indagare i crimini e i criminali. La prendiamo alla larga e poi andiamo a scavare.

Nella Serie viene citato a più riprese Sherlock Holmes proprio a ricordarci da dove deve iniziare il nostro percorso verso l’essenza. Impossibile parlare di investigazione senza pensare al più celebre “investigatore” (per la precisione “consulente investigativo”) della storia del giallo. Il personaggio di Arthur Conan Doyle è il re della deduzione, del modo di rapportarsi al crimine cui siamo abituati. Egli a sua volta prende ispirazione da Augustine Dupin, protagonista di alcuni racconti di Edgar Allan Poe nonché antesignano dell’approccio analitico, matematico, alla materia criminosa. Questi due personaggi strepitosi hanno dato vita a una serie di eredi (la maggior parte degli investigatori a noi noti, si pensi al Poirot della Christie) facendo perno su un unico concetto: il raziocinio. Il cervello è il punto. Il criminale è uno schema da decifrare con una logica ferrea e scientifica. L’assassino è l’enigma, l’indovinello, il rebus, è il problema di geometria. Egli dissemina una serie di indizi che, celati ai più, porteranno il detective alla risoluzione. Il crimine va risolto, più che compreso. Certo, tutto questo non è sterile, ma si tratta di saper ricomporre un puzzle, e, per quanto complesso, si parla di incastri.

 

Serie Tv

Un passo fuori dal tracciato, mantenendo come riferimento le Serie Tv, lo fa Dale Cooper, l’agente di Twin Peaks. Non che il meraviglioso mondo di David Lynch sia sovrapponibile alla realtà, ma qualsiasi folle visione ci rivela qualcosa  dei nostri abissi più profondi. L’agente Cooper è indubbiamente un uomo dall’intelletto fino e la deduzione non è assente nelle sue indagini, ma, complice anche l’assurdità del caso, si basa molto anche su un’intuizione più istintuale, mistica: spesso carpisce le informazioni principali dai propri sogni. Segue una logica più divinatoria, irrazionale. Parlare di “logica irrazionale” è ossimorico, ma quello che vogliamo dire è che guarda al di là del consueto, dello schema, cerca la soluzione oltre il problema. Ammette, finalmente, l’esistenza di un vento che trasforma gli incastri: non basta la matematica, serve l’intuizione dell’ignoto.

Ma torniamo a Mindhunter. Il principio è una presa di coscienza, un’epifania che il protagonista ha di se stesso: non conosco il mio interlocutore. Da questa evidenza emerge la volontà di comprensione di chi si ha di fronte (nel caso specifico, un criminale) per capirne la logica, per impararne la lingua, per avere finalmente gli strumenti per costruire un ponte di comunicazione. Da questa urgenza trae origine lo studio di quei criminali che non uccidono una o più persone per un motivo specifico che lega le vite di vittima e carnefice, ma degli assassini seriali, quelli in cui si è radicato un punto di vulnerabilità così profondo che l’omicidio si fa necessità primaria. I colloqui con Ed Kemper, Richard Speck, Jerry Brudos  servono sì a delineare uno schema da seguire, una catalogazione specifica e dettagliata di uomini capaci di compiere atti tanto efferati; anche in Mindhunter si segue un tracciato scientifico, ma poi, e ce lo rivela Holden con il suo modo insolito di condurre gli interrogatori, sono le corde più umane, i punti di contatto più fragili, il nervo scoperto e teso le uniche cose capaci di far emergere la verità. Ed ecco che si scoprono esseri umani feriti, cristallizzati in un rifiuto, crocifissi a un’oppressione (spesso materna), che hanno fatto di questo dolore, di questa sconfitta, una patologia. È proprio lì, nel rosso pulsante in cui immaginiamo abbiano casa i sentimenti, che ha sede quell’amore offeso tramutatosi in orrore. E i cedimenti di Tench e di Holden negli ultimi episodi stanno a dirci che forse non è solo la loro mente ad essere in gioco, ma qualcosa di più profondo. Che forse tutto questo arriva anche nel loro rosso pulsante. Ed è questo il messaggio di Mindhunter: per comprendere qualsiasi logica bisogna essere pronti  a scendere nella profondità degli abissi più orridi e banali che abitano ogni essere umano, bisogna avere il coraggio di arrivare nel centro pulsante del nostro sentire.

Chiamatela anima, se vi va, cambia poco. Tutto inizia e finisce sempre con il cuore.

Elisa Belotti

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                          Mindhunter è il viaggio distruttivo di chi non ha paura di perdersi nei ricordi