Ci eravamo lasciati a terra. Con lo sguardo rivolto sul pavimento di un ospedale a chiederci cosa fosse successo, perché tutto questo fosse accaduto.
Abbiamo avuto il respiro affannoso per un po’ prima di riuscire a capire che quella era la scena che annunciava la fine e che ne dettava il suo stesso principio.
La fine della prima stagione di Mindhunter ci ha lasciati sospesi nel tempo di Holden Ford. Senza darci spiegazioni, lasciandoci invece molti indizi per la trama del secondo atto.
Mindhunter è un prodotto di indubbia qualità, va visto, vissuto, affrontato e amato in ogni suo atto. Non si può fare altrimenti. In queste due stagioni ha dimostrato tutta la sua forza stilistica, ha dato adito alle più inconsce manifestazioni dell’oscurità della mente umana e ha spiegato cos’è davvero la devianza.
Quello che si andrà a contestare ora è solo un cavillo, una parte della trama che forse avremmo voluto vedere di più, quasi come una traiettoria alternativa che poteva essere intrapresa, senza però andare a intaccare o influenzare il resto della stagione che è davvero straordinaria.
Questa serie nasce da un’idea inedita, dirompente nella sua originalità. Si erge in un’epoca in cui si fa ancora fatica a comprendere come sia possibile che la psicologia possa ricoprire ruoli importanti nella società. Nelle due stagioni questo è un aspetto che emerge e che si fa via via più significativo. La struttura di Mindhunter rispecchia esattamente questa volontà di introdurre effetti che in realtà conosciamo più o meno tutti, ma spiegandoli tecnicamente. In questa spiegazione non rientrano solo i serial killer, ma anche tutti gli altri personaggi, come appunto Holden.
Ma torniamo al finale della prima stagione. Holden Ford è all’apice della sua sofferenza. Ha un attacco di panico dopo essere stato abbracciato da Ted e cerca disperatamente conforto prima nella fuga e poi nel freddo del suolo. Da qui pensavamo di averlo quasi perso. Nella sua mente e nei suoi pensieri.
La seconda stagione di Mindhunter ricomincia esattamente da lì, ma ne oscura tutti i successivi passaggi. La conclusione della trama della prima è tutta lì, in un attacco di panico che non ha seguito, se non nei continui rimandi dello stesso Ford e di Tench. Sembra un passato così lontano eppure così intenso, solo che non ne riusciamo a vivere i contenuti.
Sappiamo che Ford potrebbe esperire di nuovo una di quelle sensazioni che nel finale della prima stagione lo hanno buttato a terra, ma non ci sono dimostrazioni che questo possa avvenire. Lavora da solo, senza Tench, accoglie nuove storie, nuovi colpevoli, si erge addirittura al di sopra di loro.
Rivederli, toccarli, guardarli di nuovo negli occhi dovrebbe riattivare in lui un ricordo di una paranoia, ma così non è. E sembra essere in fin dei conti il personaggio più stabile e meno confuso della stagione. Cosa che non ci saremmo mai aspettati date le premesse.
È pur vero che la stagione ha funzionato magnificamente anche così. E questa è una grande forza degli autori di Mindhunter, le traiettorie di trama in potenza sono sempre infinite e tutte in potenza inedite e stupefacenti.
Questo aspetto non sfruttato però, lascia dell’amaro in bocca. Si poteva guardare ancora più in profondità, si poteva andar giù e risalire solo dopo un po’ di tempo. Questo ci saremmo aspettati, avendo imparato a conoscere Holden e la sua indole. È cresciuto invece molto in fretta, saltando evidentemente qualche passaggio di cui noi non siamo potuti essere testimoni. Ed è stato un peccato vedere una caratterizzazione così determinata e profonda di Tench, di Wendy e non vedere anche la sua, introdotta nella prima stagione e rallentata in quella appena passata.