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Il punto debole della seconda stagione di Mindhunter

Mindhunter
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Mindhunter ci ha conquistati immediatamente perché racconta qualcosa che nel panorama seriale mancava. C’erano state serie tv a tema serial killer ma mai una che raccontasse come fosse nata l’arte del profiling, dell’identificazione di questa categoria di criminali e chi fosse stato il primo a essere riconosciuto come tale. A dare il via a questa nuova scienza – almeno sul piccolo schermo – sono gli agenti Ford e Tench e la professoressa Carr.

Nelle prigioni in cui si recano intervistano i più feroci e temibili assassini che la storia ricordi. Attraverso quei dialoghi entriamo nella mente di quei criminali, indagandone la psiche, tra manie di potere e perversioni di uomini che non lo sono più. C’è un’attenzione storica e caratteriale maniacale nella rappresentazione di questi serial killer, una figura tra le più terrificanti e affascinanti nell’immaginario umano. È irresistibile comprendere l’origine del male, quel fascino che l’oscurità si porta dietro.

Mindhunter fa proprio questo: risponde a una delle nostre curiosità più profonde e più sinistre.

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Il killer della calibro 44 o Figlio di Sam in Mindhunter

La prima stagione di Mindhunter si concentra sul lato teorico della profilazione mentre la seconda tenta di applicare le scoperte di Ford, Tench e Carr nella realtà. Quello che i protagonisti avevano studiato su un piano astratto viene riportato in un determinato contesto. In questo caso si tratta dell’Atlanta di fine anni ’70 e inizio anni ’80, profondamente divisa tra popolazione bianca e nera, sconvolta dagli omicidi di decine di bambini.

Anche nella seconda stagione Mindhunter non perde le caratteristiche che l’avevano resa grande: la regia e l’interpretazione sono di livello altissimo, la scrittura è brillante. Lo vediamo soprattutto con gli iconici interrogatori. I dialoghi e gli scontri psicologici non escludono contenuti maturi, duri e certe volte strazianti. Gli episodi sono un crescendo di emozione e tensione che sfocia in un finale amaro per tutti i protagonisti.

Nonostante il prodotto non scenda mai di qualità, bisogna ammettere che anche una serie tv come Mindhunter ha un punto debole.

Mindhunter

Il caso di Atlanta occupa gran parte della seconda stagione. Mindhunter assume quindi le caratteristiche di un crime più comune rispetto al thriller psicologico della prima stagione. I ritmi si avvicinano al poliziesco, perdendo in parte la sua componente riflessiva. Le indagini sul campo prendono il sopravvento sulle interviste. Viene meno il confronto tra agenti e killer, fondamentali nell’approfondimento di entrambi. Lo vediamo con Manson, dove Bill a stento trattiene il dolore per la sua condizione familiare e allo stesso tempo osserviamo la perversa personalità del killer. Manson è diverso ed è difficile arrivare a lui.

Si era parlato tanto dell’apparizione del tremendo killer prima dell’uscita di Mindhunter 2. Non ha tradito le aspettative, anche se il minutaggio che gli è stato concesso è veramente scarso. È chiaro che c’è il tentativo di essere più realistici possibili, ma sarebbe stato bello averlo un po’ di più sullo schermo.

Con Bill e Holden impegnati ad Atlanta, sono Wendy e Gregg a sostituirli nelle interviste. Non è la stessa cosa perché le interviste non sono sufficientemente spinte e ne fanno a malapena due.

Il taglio crime sacrifica quindi non solo le interviste, ma anche la stessa Wendy. Non essendo un agente, non può partecipare alle indagini e viene messa in panchina. Wendy perde tutta la sua utilità, venendo relegata nella sfera privata, eccetto appunto le due interviste con Gregg. Quasi tutto il suo tempo è concentrato nella relazione con Kay. Una storyline slegata dal contesto generale, come se fosse stata introdotta solo per mantenere sulla scena la dottoressa Carr. La fine repentina di questa storia supporta questa idea. Inoltre, pur essendo gestita bene, non aggiunge niente alla trama e alla mitologia di Mindhunter. Nonostante promettesse molto di più, Wendy ha avuto un ruolo prossimo allo zero.

Holden è talmente immerso nel suo lavoro che non riesce più a comprendere e ad ascoltare gli altri. Le opinioni, i problemi, i sentimenti delle persone – che sia Bill, un politico corrotto, un poliziotto o le madri devastate dalla morte dei figli – non hanno importanza. Lo stress, l’ossessione per il caso, la frustrazione del fallimento dovrebbero provocargli frequenti attacchi di panico. Il finale della prima stagione ci aveva lasciato proprio così: Holden, dopo aver abbracciato il male, dopo che Ed Kemper lo ha stretto tra la sua morsa, è crollato. Il risultato è un attacco di panico così devastante che per poco non rischia la sua stessa vita. Così, all’inizio della seconda stagione, chiede a Bill e a Wendy di tenerlo d’occhio. Ma non serve perché quegli attacchi di panico sembrano magicamente svaniti.

Bill, a causa del figlio, non se la sta passando molto bene. Cerca di mantenere gli equilibri tra lavoro e famiglia, invano. Anche questa storyline è piuttosto slegata dal resto della stagione ma riesce a dare grande spessore umano a Bill, aggiungendo ulteriore tensione alla vicenda. È come se il male che i protagonisti studiano fosse entrato nella loro vita e l’avesse infettata.

In poche parole, il grande punto debole di questa stagione è la mancanza di unità tra le varie storyline. Ne sono state trattate parecchie, alcune hanno funzionato – come quella di Bill – altre un po’ meno – come quella di Wendy – mentre alcune sono state palesemente trascurate nel corso delle puntate – come quella di Holden. Nonostante questo, ribadiamo che Mindhunter è uno dei prodotti migliori degli ultimi tempi e che queste imprecisioni non hanno compromesso in alcun modo l’esito positivo dello show!

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