Ogni grande Serie Tv è foriera di spunti di riflessione. Lo è a maggior ragione se il creatore è un maestro del thriller psicologico, capace di tracciare con pochi personaggi la complessità strutturale della psiche umana. E Mindhunter è una Serie Tv da vedere più e più volte per poterne leggere le infinite sfumature. Oltre la superficie, oltre il face to face con i serial killer, infatti, l’opera induce ad analizzare noi stessi. Vediamo come.
Prima di Mindhunter, David Fincher aveva già sdoganato il fascino del male più oscuro, sullo schermo. Pellicole come Se7en e Zodiac offrono un accesso privilegiato all’interno di menti deviate, mostrandoci il loro lucido, ancorchè folle, disegno. Come se fosse realmente possibile spiegare razionalmente una serie di crimini brutali. Come se, oltretutto, una spiegazione “logica” potesse essere la panacea di tutti gli orrori.
Eppure è innegabile che l’efferatezza dell’omicidio attragga tanto quanto inorridisca. Nella veste di spettatori, esterni ma emotivamente coinvolti, abbiamo osservato con interesse la perfetta applicazione del contrappasso ai sette peccati capitali, perpetrata dal John Doe di Spacey. Sulla stessa lunghezza d’onda siamo stati catturati dal Killer dello Zodiaco: fascino, peraltro, acuito dall’aura di mistero che avvolge un criminale mai rivelatosi in carne e ossa.
Fincher, pertanto, gioca spesso con le sensazioni più recondite dell’individuo, inducendolo a sublimare l’orrore e la sconfinata brutalità sotto forma di curiosa attrazione. È l’Io cosciente a compiere questo processo di difesa razionalizzante, adeguandosi a una realtà altrimenti insostenibile. Niente di nuovo all’orizzonte: d’altra parte il regista di Fight Club adora stimolare sistematicamente il nostro spirito critico, all’interno delle sue opere.
In Mindhunter egli compie addirittura un passo avanti tratteggiando, tramite i personaggi, buona parte delle reazioni umane di fronte a omicidi così orribili. Reazioni talmente eclatanti da non poter essere contenute all’interno di un umile ufficio nei sotterranei.
Ed è proprio da quell’ufficio che bisogna partire per comprendere la funzione metaforica rappresentata da Holden Ford, Bill Tench e Wendy Carr. Un posto di lavoro che diventa un non luogo, in quanto condensatore della vita professionale dei tre protagonisti e, allo stesso tempo, della vita personale. I due momenti non possono essere tenuti separati, per le ragioni più disparate, con effetti che si ripercuotono anche su chi li circonda.
Emblematico, in tal senso, l’atteggiamento di Bill. Quell’incredibile attore che è Holt McCallany ci trasmette tutta la disillusione di un personaggio che è troppo vecchio per approcciare con entusiasmo a una ricerca di questa portata. Per gran parte della stagione appare deciso a sobbarcarsi il peso del male, ascoltandolo da chi quel male lo alimenta, tenendo la famiglia all’oscuro di tutto.
Tuttavia, man mano che il viaggio nella psiche dei killer si fa più fitto, l’agente emerge in tutta la sua fragilità. A rincarare la dose, il senso di inadeguatezza e distanza da un figlio con evidenti problemi comunicativi. La situazione precipita gradualmente ma inesorabilmente: il rifugio nell’alcool, l’incidente, il figlio che trova una foto di un macabro omicidio incautamente lasciata in giro per casa; sarà proprio questo evento a innescare il suo toccante sfogo con la moglie e, conseguentemente una voglia di cambiamento già accennata nel season finale.
Anche Wendy, accettando il lavoro a Quantico, ha anteposto la ricerca alla sua relazione. Da buona accademica rimane vincolata nei rigidi schemi del questionario, reagendo con apparente distacco scientifico alla brutalità delle interviste. In realtà è nel quotidiano che, per lei, si palesano le ansie e i timori. Alimentati da una nube di solitudine che la Serie non manca di farci intuire, con poche ma essenziali sequenze.
Anche la professoressa, pertanto, non è immune al male, respirato in ogni registrazione, in ogni trascrizione e in ogni immagine. Sintomatico della sua vulnerabilità è la speranza di conoscere un gatto nello scantinato del suo condominio. Ammesso che dell’animale si tratti, visto che non ci viene mai mostrato lasciando sottintendere come la Carr sia perfettamente disposta a mettere da parte la ratio, pur di alleggerire il fardello della solitudine.
Chi invece ha abbracciato totalmente il fascino del male più oscuro, estremizzando il concetto introdotto in apertura, è Holden Ford.
Se nei due colleghi emerge in maniera più o meno nitida il malessere dettato da un lavoro ambizioso e disturbante in egual misura, in Ford più che mai vita privata e lavoro si fondono. Si tratta di un interscambio continuo: il lavoro si insinua nella sua quotidianità che, a sua volta, diviene un banco di prova per la ricerca. L’unica conseguenza possibile, dal punto di vista personale, è l’autodistruzione.
Gli atteggiamenti assunti da Ford nel corso della stagione sono forse annoverabili tra i tratti devianti. Non è un caso che egli sia attratto da donne forti (Debbie e, inizialmente, Wendy) proprio mentre il concetto di dominio sull’altro sesso si rivela determinante per classificare molti dei comportamenti dei serial killer presi in considerazione. Ancor più ambiguo è il feeling, nemmeno tanto inconscio, che stringe con gli stessi: da Ed Kemper (di cui si considera “amico”) a Richard Speck (“dovrò chiedergli un autografo?”).
Da giovane agente un po’ naif che approccia alla ricerca con genuina curiosità, Holden si trasforma in un arrogante fanatico che abusa della sua bravura. In ambito lavorativo egli viola a più riprese il modus operandi, sia nell’interazione coi serial killer (assecondando le loro perversioni), sia nella risoluzione dei casi marginali (l’assassino della majorette, il direttore della scuola).
La sua deriva comportamentale emerge anche nella relazione con Debbie: agghiacciante la freddezza e l’indifferenza con la quale accetta la rottura del rapporto. Ciò nonostante, è veramente possibile condannare Ford? Tutto è lasciato volutamente alla libera interpretazione dello spettatore. È innegabile, infatti, che i suoi modi poco ortodossi abbiano aiutato la ricerca più del questionario di Wendy; idem per il comportamento del preside, nei confronti dei bambini, che non può non destare quanto meno sospetti. E sono soltanto due esempi lampanti.