La cancellazione di Mindhunter da Netflix è una ferita ancora aperta per i fan. Un vero e proprio caso irrisolto, una scomparsa improvvisa che lascia attoniti e incapaci di reagire, come nei casi che i detective Bill Tench e Holden Ford si sono trovati a risolvere nelle due stagioni della serie creata da David Fincher.
Nonostante due sole stagioni, Mindhunter è riuscita a lasciare un ricordo così nitido nella memoria di coloro che l’hanno seguita che, a ormai tre anni dalla sua sospensione, le notizie che citano anche solo marginalmente la possibilità di una ripresa sono come ancore di salvezza, telefonate dopo anni di silenzio che riaprono un caso, uno spiraglio di speranza che un vero e proprio capolavoro seriale possa trovare la sua degna conclusione.
Proprio mentre questo articolo è in stesura, arrivano notizie direttamente da David Fincher che gelano le ultime speranze dei fan:
“Mindhunter 3 non si farà. Sono molto orgoglioso delle prime due stagioni ma è uno show molto costoso e, agli occhi di Netflix, non abbiamo attirato un pubblico sufficiente per giustificare l’investimento”.
Un anno fa il regista Andrew Dominik, autore di alcuni episodi della serie tra cui quello con Charles Manson, rivelata che la serie sarebbe proseguita portando Bill Tench e Holden Ford (interpretati da Holt McCallany e Jonathan Groff) nientemeno che a Hollywood.
Pare che, per la terza stagione, Mindhunter si sarebbe concentrata su una sorta di riflessione sulla coscienza pubblica, seguendo le vicende dei protagonisti che si intrecciano con quelle di due registi legati da una storia comune: quella del personaggio creato dalla penna di Thomas Harris, il geniale psichiatra cannibale Hannibal Lecter. Michael Mann, autore di Manhunter, il primo film con protagonista Lecter, e Jonathan Demme, regista de Il silenzio degli innocenti, film che inciderà per sempre nell’immaginario collettivo questo personaggio, avrebbero avuto un ruolo centrale nella terza stagione di Mindhunter.
Un progetto sicuramente ambizioso, che avrebbe iscritto le vicende dei casi seguiti da Bill e Holden in una cornice più ampia: quella della violenza come cultura, come forma d’arte e come celebrazione collettiva attraverso il rito della messa in scena al cinema. Non che in una terza stagione della serie non ci sarebbe stata già abbastanza carne al fuoco: i casi che Bill e Holden si trovano a dover risolvere si iscrivono nella cornice più ampia di uno dei cold case più scottanti della storia dei serial killer americani, quella di Dennis Rader alias BTK Killer.
Il fantasma letale che aleggia su Mindhunter, già nella seconda stagione, è decisamente meno presente ma non per questo smette di assolvere la sua funzione: ricordare ai detective, e a noi che guardiamo, che il male è tentacolare e che mentre noi risolviamo un caso ad Atlanta (ma era poi risolto davvero, il caso dei bambini uccisi ad Atlanta?), le vittime di BTK continuano a venire legate, torturate e uccise da un’altra parte degli Stati Uniti. Probabilmente, quindi, la terza stagione di Mindhunter si sarebbe concentrata sulla riflessione su come il mondo di Hollywood ha sempre visto la violenza e la morte, tenendo però sempre a vista la caccia a BTK che, come un animale selvatico, appare e scompare senza darci la possibilità di avvicinarci abbastanza da poterlo né catturare né imprimere su una fotografia.
Cosa ci saremmo potuti aspettare, quindi, dalla terza stagione di Mindhunter che non vedremo mai?
Uno degli aspetti su cui la serie giocava fin dalla prima stagione era l’introspezione e l’evoluzione psicologica dei personaggi, in particolare quello di Holden. Se all’inizio della prima stagione il suo personaggio ci veniva presentato come un giovanotto desideroso di fare e di portare il suo contributo, anche in modo grottescamente ingenuo, una sorta di boy scout nel mondo della profilazione criminale, sul concludersi della stagione ci accorgevamo che qualcosa si stava sgretolando nella patina di entusiasmo e naïveté del giovane agente. Emergevano diversi lati oscuri del carattere di Holden, alcuni decisamente allarmanti, che lo avvicinavano in certi momenti più ai criminali che intervistava che alla figura dell’agente FBI integerrimo che voleva a tutti i costi impersonare.
Nella terza stagione la frattura che si intravedeva nei lati opposti della sua personalità sarebbe forse arrivata a una soluzione, non necessariamente a una risoluzione: forse Holden avrebbe smesso di contrastare e di reprimere la parte oscura di sé che, emergendo, gli causava quelle terribili crisi di panico e avrebbe imparato a conviverci. Forse lo avrebbe fatto imitando gli psicopatici che intervista per lavoro: fingendo, come hanno fatto loro per tutta la vita, di avere una psiche normale, di essere tutto intero, di provare dei sentimenti e delle emozioni “consentite”. Per fare ciò, sarebbe stato necessario ricorrere alla manipolazione continua, anche in campo sentimentale: Holden non avrebbe più potuto mettersi con una ragazza intelligente e superiore alla media come Debbie, la fidanzata della prima stagione, ma avrebbe dovuto puntare a una ragazza più remissiva, meno intelligente e più portata a farsi manipolare.
Anche il personaggio di Wendy Carr, che nella seconda stagione affianca e sostituisce la coppia Bill/Holden nelle interviste ai criminali, subirebbe un’evoluzione che andrebbe nella direzione di svelare la natura del personaggio. Wendy, infatti, è donna in un mondo, quello accademico e federale, dominato dagli uomini; lesbica in una società ancora fortemente omofoba, in cui l’omosessualità è vista come una devianza e ritenuta parte del comportamento criminale. Diversamente da Holden, che va in direzione di un disvelamento del suo lato oscuro, Wendy potrebbe affermarsi con più sicurezza in quello che è il suo lato nascosto.
Capitolo a parte per Bill, il personaggio che potenzialmente potrebbe riservare più sorprese, in questa ipotetica e, ahinoi, utopistica terza stagione di Mindhunter. Sul finire della seconda, infatti, Bill viene lasciato dalla moglie dopo che i problemi comportamentali del loro figlio adottivo diventano ingestibili. Tra i tre, lui è quello che potrebbe incarnare meglio lo stereotipo del “poliziotto problematico”, che si butta a capofitto nel lavoro per dimenticare il dolore della perdita. Sicuramente, però, i creatori di Mindhunter avrebbero saputo gestire il personaggio in maniera meno prevedibile di così: Bill non diventerebbe necessariamente il rifacimento di Rustin Cohle di True Detective. Potrebbe addirittura lasciare l’FBI, per dedicare le sue energie a impedire al figlio di trasformarsi in uno psicopatico, ma la verità è che il suo arco narrativo è talmente appeso al filo narrativo che non potremmo mai immaginare con un certo margine di sicurezza cosa ci riserva il personaggio.
Già, la trama di Mindhunter 3: su cosa avrebbe potuto concentrarsi? Del quadro generale, la riflessione hollywoodiana sulla violenza, abbiamo già parlato, ma del particolare, dei piccoli e apparentemente routinari eventi di violenza che costruiscono la vera storia di Mindhunter? Volendo proseguire la vicenda seguendo l’arco criminale di BTK, ci troveremmo di fronte a un notevole salto in avanti temporale: Dennis Rader viene infatti arrestato nel 2005, trentuno anni dopo lo sterminio della famiglia Otero, il suo primo crimine. Sarebbe interessante constatare quali progressi, dagli anni Settanta al Duemila, ha compiuto la profilazione criminale e come sia entrata nel linguaggio comune, addirittura trasformata in cultura pop.
I protagonisti di Mindhunter avrebbero in qualche modo un ruolo di primo piano nella cattura di BTK o il loro arco narrativo si concentrerebbe su altri eventi criminali? Dato che la seconda stagione è ambientata tra il 1980 e il 1981, viene da dire cinicamente che siamo nel pieno dell'”epoca d’oro” dei serial killer americani: Richard Ramirez, Jeffrey Dahmer, Aileen Wournos e i già detenuti Ted Bundy e John Wayne Gacy, solo per citarne alcuni. Facce che ci appaiono conosciute proprio grazie alla cultura di massa che, con prodotti come Mindhunter e altri decisamente meno meritevoli, li ha fatti arrivare fino a noi e ha provato a spiegarci cosa accade nella loro mente.
Chissà se Wendy Carr, nel 2005, è riuscita finalmente a completare la sua opera di profilazione degli psicopatici e tiene un corso universitario, a dimostrazione che la sua intuizione di seguire Holden e Bill nei penitenziari anziché restare in dipartimento era corretta. Chissà se Holden dirige l’unità di Scienze comportamentali, insegna ai cadetti ciò che lui e Bill hanno scoperto e, quando torna a casa dalla moglie che lo aspetta in giarrettiera, vederla su quei tacchi a spillo gli provoca ancora malessere.
Chissà se Bill ha mollato tutto, si è lasciato andare all’autodistruzione e vive come un eremita, in preda ai fantasmi del passato, o se fa l’agente pensionato single che telefona al figlio due volte l’anno, sperando di non ricevere una telefonata dall’ex moglie che gli dice “nostro figlio ha combinato qualcosa”.
Sappiamo che è stupido pensare che possa esserci ancora una speranza per Mindhunter, a maggior ragione dopo la conferma definitiva della cancellazione da parte di David Fincher. Ma non riusciamo comunque a smettere di augurarci che un giorno, inaspettatamente, possa arrivare la notizia che la serie proseguirà e arriverà a una degna conclusione. Forse grazie a un auspicabile ma utopistico cambio di mentalità da parte di Netflix rispetto ai criteri di cancellazione delle sue serie tv. E forse grazie anche a un cambio di mentalità (o di mente) creativa dietro a Mindhunter, che riesca a mettere la parola “fine” anche senza la firma del suo creatore originario.