Elementare! Per Monk diventa tutto elementare con il suo personale percorso investigativo. Acume strettamente legato alla sfera razionale, capacità di osservazione paragonabile alla vista laser di Superman, memoria fotografica con un archivio di dettagli da catalogo della Biblioteca del Congresso di Washington. Se ci fermassimo qui avremmo avuto l’ennesimo investigatore intelligentemente super dotato e supponente che il mito di Sherlock Holmes ci ha regalato nel corso degli anni. Monk recide questo cordone ombelicale. Non potrebbe essere altrimenti, nessuno può scambiare Monk come l’uomo che spicca per fascino e carisma in una stanza.
Adrian Monk si mimetizza con le pareti coi suoi completi beige, si nota come figura disturbante a causa dei suoi tic, dei movimenti goffi, delle battute inappropriate. Il disagio del suo essere strutturato come una persona con dei problemi diventa il disagio di chi ha intorno nel correlarsi con lui. Monk è un gene mutato sempre sul limite della trasformazione definitiva. Una salvietta monouso in più e il gioco è fatto. Un equilibrio delicato. Chi gli sta intorno stenta a capire come le deduzioni geniali possano andare di pari passo con l’incapacità di vivere. La vivace intelligenza non è uno sprone per trovare un posto nel mondo ma un deterrente per nascondersi ad esso.
Il gene mutato Monk fa quasi paura, incute il timore che a stargli accanto anche i nostri geni possano mutare e consegnarci alla paura di contrarre il suo stesso disturbo ossessivo-compulsivo.
Monk è una di quelle serie tv che sono riuscite ad affrontare al meglio il tema della salute mentale, mantenendo sempre il dovuto rispetto grazie soprattutto all’interpretazione di Tony Shalhoub. La sua fisicità discreta, le fobie raccontate da impagabili micro espressioni, gli atti ripetuti ossessivamente sì ma con timore misto a vergogna, Tony Shalhoub è stato il motivo portante del successo di Monk e pensare che alle origini era stato scelto Michael Richards (Cosmo nella serie tv vintage Seinfeld, ne potete leggere qui) che non ha accettato la parte.
Sherlock e Clouseau secondo Tony Shalhoub
Camicia chiusa fino all’ultimo bottone e senza cravatta, completo monocolore, non una piega, scarpe lucide fino a riflettere la luce. In questa sorta di armatura Tony Shalhoub ha dato una vita a Monk che continua ben oltre la fine della messa in onda della serie tv (che potete vedere qui). L’attore ha abbracciato completamente il personaggio, il suo disturbo, le sue fobie e portandole sullo schermo con una fisicità buffa, spesso tenera e sempre molto rispettosa dei disagi che si celano dietro ogni gesto che suscita la risata.
Nelle situazioni limite, esasperate, Tony Shalhoub riesce a non far impennare i registri della sua recitazione e renderli sempre credibili anche in situazioni inverosimili. Monk resta sempre l’essere umano da capire, il genio in una mente disaggregata. L’interpretazione di Tony Shalhoub ha raccolto un Golden Globe, due SAGA e tre Emmy, tutti meritatissimi per averci regalato un detective vulnerabile, sgraziato nei movimenti e nella sua socialità sempre sollecitata dalle circostanze e mai da un moto proprio.
La parte Holmes di Monk è il puro acume investigativo e una buona dose di narcisismo.
Non eredita la freddezza, come potrebbe, indaffarato com’è a tenere una lista di fobie e decidere in quale ordine riportarle, se mettere le rane prima della grandine e degli opossum. La parte Clouseau sono le mille gaffe causate dalla sua incompetenza sociale aggravate dalla sua totale negazione alla comprensione delle battute e del sarcasmo. Prima ancora che nella serie emerga il passato infelice di Monk con l’abbandono del padre, un fratello psicologicamente più devastato di lui, una madre emotivamente violenta, la sua solitudine di bambino e ragazzo “strano” bullizzato, Tony Shalhoub dona a Monk i suoi occhi tristi e perennemente impauriti per darci la sua dimensione di figura tragica.
Come pubblico non vogliamo che i detective come Holmes (ne potete leggere qui) e Clouseau, anche se per motivi ben diversi, cambino anzi vorremmo che restassero sempre fedeli a loro stessi. Per Monk desideriamo fortemente che riesca a spezzare se non tutte almeno una buona parte delle sue catene, che ci sia la svolta, quella vera, che si sbottoni il colletto della camicia, che si sgualcisca la giacca, che trovi una ricompensa a tutti gli anni di paura e di dolore.
Caregiver
Nell’idea originale di Andy Breckman, l’ideatore di Monk appassionato di Sherlock Holmes, i personaggi che gravitano intorno al detective ricoprivano i ruoli creati da Arthur Conan Doyle. Il L’Ispettore Lestrade promosso a Capitano Stottlemeyer (Ted Levine), Sharona prima (Bitty Schram) e Natalie poi (Traylord Howard) sono i Watson al femminile. Il Tenente Disher (Jason Gray-Stanford) non trae ispirazione da un personaggio di Conan Doyle ma è piuttosto lo stereotipo del poliziotto volenteroso ma limitato che cerca di imitare il Capitano Stottlemeyer (come l’Ispettore Lucas nello sceneggiato Le Inchieste del Commissario Maigret).
Nel corso della serie si sono tutti trasformati in caregiver, veri e propri badanti di Monk. Una famiglia allargata di supporto che avrebbe meritato un approfondimento maggiore per ogni personaggio. Monk il solitario, il maniacale, il fobico deve ai suoi caregiver e alle svolte inaspettate della vita se è riuscito finalmente a sbottonarsi il colletto della camicia. Fuori è sempre una giungla (It’s a Jungle Out There ) come canta Randy Newman nella sigla di apertura che ci ricorda anche alla fine che Monk sa che gli mancheremo quando avrà trovato la ricompensa che gli auguravamo da sempre. I am going to miss you when I am gone. Anche a noi, Adrian Monk.