C’era chi pensava che Ryan Murphy non sarebbe tornato più quello di un tempo. Dopo l’indebolimento di American Horror Story, il regista statunitense non era più riuscito a stupire i suoi i fan nel modo in cui solo lui sapeva. Nessuno ne parlava più come il Re della serialità se non al passato, e nessuno consigliava uno dei suoi nuovi lavori. Sembrava impossibile riuscire a metterci di nuovo d’accordo tutti, ma poi qualcosa è successo. Non sappiamo come, ma lo abbiamo capito subito, fin dal trailer. Non abbiamo fatto in tempo a finirlo che già ne eravamo certi: Ryan Murphy sarebbe tornato e ci avrebbe messo di nuovo d’accordo tutti, ci avrebbe stupito. Le immagini, l’assoluta credibilità di Evan Peters, la storia che il regista aveva scelto di raccontare, la tensione che trasudava da quei pochi frammenti, tutto questa era sufficiente per farci comprendere che sì, Ryan Murphy stava davvero per tornare. Così è stato. Mostro – La Storia di Jeffrey Dahmer, la nuova Serie Tv Netflix con Evan Peters, ha letteralmente lasciato tutti a bocca aperta. L’attore protagonista, oramai un vero beniamino per il regista, ha confermato di essere uno dei volti più interessanti e validi dell’intero panorama seriale con un’interpretazione fedele alla realtà e praticamente perfetta. I silenzi, gli sguardi, il modo di parlare e perfino di camminare di Peters sono stati in grado di restituirci un’immagine reale di uno dei serial killer più temuti nella storia americana, consegnandoci di fatto una delle storie biografiche migliori mai prodotte da Netflix. Dal 22 settembre, data di uscita della serie, non si parla d’altro se non di lui e della sua storia, del terrore dell’America e delle vittime. I documentari che trattano gli eventi che si svolsero fino agli novanta stanno facendo di nuovo il giro delle nostre reti, segnale del fatto che l’interesse per questa storia è oramai di nuovo alle stelle.
Cosa accadde realmente nella vita di Jeffrey Dahmer? Proviamo a ricostruire i fatti facendo luce su tutto quel che accadde durante quegli anni così bui e oscuri raccontati da Ryan Murphy in Mostro – La Storia di Jeffrey Dahmer, la nuova Serie Tv Netflix che conferma ancora una volta il talento della piattaforma nei confronti dei prodotti crime
Jeffrey Dahmer nacque il 21 maggio del 1960 nel Wisconsin da Lionel Dahmer e Joyce Annette. L’infanzia, almeno fino ai suoi sei anni, passò in modo sereno. I problemi arrivarono in un secondo momento: la depressione della madre, unita alla lontananza del padre, furono le basi su cui il carattere apatico e chiuso di Dahmer cominciò pian piano a svilupparsi. A differenza del suo legame con la madre, quello con il padre era certamente più stretto e complice. Fu proprio lui, durante gli anni dell’infanzia, a spiegare a Jeff come conservare gli scheletri degli animali. Secondo Lionel quella del figlio era solo una piccola curiosità scientifica, ma nella realtà – quella curiosità – stava cominciando a fargli tirar fuori la sua vera natura. Le cose peggiorarono durante i suoi tredici anni, momento in cui cominciò a sviluppare macabri desideri sessuali su persone oramai decedute. Gli anni seguenti non andarono di certo meglio, dato che Jeff cominciò a bere grosse quantità di alcol e a chiudersi sempre di più in se stesso. L’abbandono della madre, a seguito della separazione con il padre, non lo aiutò di certo nell’uscire da questa nuova dipendenza. L’evento, come abbiamo visto in Mostro – La Storia di Jeffrey Dahmer, lo portò a vivere da solo nella vecchia casa di famiglia in Ohio.
Dal 1960, anno di nascita di Jeff, al 1978 passano esattamente diciotto anni. In quegli anni, come abbiamo accennato, qualcosa sembra anticipare un disastro, ma nessuno – tantomeno la sua famiglia – avrebbe mai potuto pensare fino a che punto sarebbe arrivato il proprio figlio. Jeffrey Dahmer mise infatti in atto il suo primo omicidio all’età di 18 anni. La vittima si chiamava Steve Hicks, un autostoppista di 19 anni che gli chiese un passaggio. Jeff gli offrì di passare prima a casa sua per bere una birra e ascoltare un po’ di musica ma, una volta giunti lì, non lo accompagnò più da nessuna parte. Con un manubrio di 4,5 kg lo uccise, poi lo violentò e poi lo smembrò totalmente. Le ossa di Hick finirono in dei sacchi della spazzatura che sarebbe successivamente stati sepolti nel bosco dietro la casa di Jeff. Da quel momento era oramai fatta: l’incubo di Jeffrey Dahmer era oramai reale.
Dopo l’omicidio il ragazzo – sotto richiesta del padre – iniziò a frequentare l’università, ma venne presto espulso a causa della bassa frequenza alle lezioni e i guai con l’alcol. Sempre sotto richiesta del padre, si arruolò nell’esercito degli Stati Uniti nel 1979, ma anche lì le cose non andarono meglio. Dahmer fu infatti congedato a causa dei suoi continui problemi di dipendenza alcolica. Dopo quell’esperienza andò a vivere con la nonna, l’unica persona della famiglia a cui sembrava davvero affezionato. Il padre sperava che il ragazzo, attraverso la sua influenza, potesse mettere la testa a posto e vivere una vita normale, ma questo non accadde mai.
Il periodo vissuto con la nonna non aiutò Dahmer a smettere di compiere gli omicidi. La condivisione della stessa casa con quest’ultima non gli impedì di portar le vittime nella propria dimora e praticare il solito schema. I luoghi in cui conosceva le sue future vittime erano i locali gay. Il ragazzo era infatti omosessuale e ossessionato dai ragazzi asiatici o africani, dettaglio che fece presto notizia a causa delle diverse denunce mai ascoltate fatte dalla popolazione africana nei suoi confronti. Se anche solo un poliziotto avesse dato retta a quel che veniva raccontato dai pochi sopravvissuti, avrebbe subito scoperto che Dahmer era un vero e proprio serial killer, e non un ragazzo ambiguo come erano soliti giudicarlo. Dahmer, come se non bastasse, era anche un pedofilo. Come abbiamo visto nella Serie Tv di Ryan Murphy, infatti, due delle sue vittime possedevano a malapena 14 anni.
Nel 1988 Dahmer fu allontanato da casa della nonna a causa dei suoi problemi d’alcol, rumori e odori, e si trasferì nel quartiere di Milwaukee. La nuova dimora diventò presto un nuovo punto di adescamento per le giovani vittime che, una volta giunte lì, venivano massacrate, poi violentate e fatte a pezzi. Somsak Sinthasomphone, un ragazzino di tredici anni che Dahmer adescò con la scusa di scattargli delle foto retribuite, riuscì a scappare dalle braccia di Jeff denunciando anche il tentato omicidio. Il processo lo condannò soltanto a dieci mesi in un ospedale psichiatrico. Una volta scontata la pena, egli tornò a casa dalla nonna e continuò la vita di prima, massacro dopo massacro.
Il periodo a casa della nonna terminò nel 1990, anno in cui il ragazzo andò di nuovo a vivere da solo e intensificò la sua attività omicida. Dahmer uccise, tra il 1990 e il 1991, ben dodici persone. Lo fece con il suo solito schema, cosa che fece destare dei sospetti nei vicini che sentivano rumori e odori strani provenire dal suo appartamento. Furono proprio due sue vicine a chiamare la polizia quando una delle sue vittime fu ritrovata nuda e in uno stato confusionale. La polizia, nonostante l’assurda e drammatica situazione, decise di credere alle menzogne di Dahmer. Il serial killer disse infatti che quello era il suo fidanzato diciannovenne e che fosse ridotto in quel modo perché aveva bevuto troppo. Senza controllare documenti né l’appartamento, i poliziotti lasciarono che la vittima tornasse a casa con Jeff, il suo assassino.
Tracy Edwards fu l’ultima vittima di Jeff Dahmer. Riuscì non solo a salvarsi, ma anche a denunciarlo ponendo finalmente fine alla sua attività criminale. Come al solito, il ragazzo era stato adescato e portato a casa con una scusa ma, prima che Jeff potesse mettere in atto il suo schema, Tracy percepì l’odore strano della sua dimora. In un secondo momento fece anche caso alle foto che ritraevano le varie vittime del serial killer. Con un pugno riuscì dunque a stordire il suo aggressore, scappando via verso la polizia che, finalmente, arrestò Jeffrey nello stesso giorno: il 22 luglio 1991.
Tutta la verità venne finalmente a galla. I nomi dei ragazzi considerati scomparsi avevano adesso una spiegazione, anche se drammatica: erano tutti stati uccisi da Jeffrey Dahmer. Il processo fu costruito in maniera tale che, a prescindere dalla difesa, lui non potesse più conoscere la libertà. Jeffrey Dahmer fu così condannato a passare il resto della sua vita in carcere, ma l’assurdità di questa storia non è ancora finita. Durante la sua prigionia, infatti, il serial killer più spietato d’America fu ucciso da Cristopher Scarver, un detenuto schizofrenico che lo colpì con un manubrio tirato fuori dalla palestra del carcere, lo stesso strumento che Dahmer utilizzò per il suo primo omicidio. Il colpo fu talmente forte da non permettergli neanche di arrivare in ospedale. Il 28 novembre 1994, così, Jeffrey Dahmer perse la vita. Il suo omicida era, come anticipato, un ragazzo schizofrenico che – una volta saputo il motivo della prigionia di Dahmer – decise di vendicare la vita delle diciassette vittime del serial killer. Dopo la sua morte il suo cervello fu distrutto per chiudere totalmente il cerchio, anche se molti avrebbero voluto studiarlo per condurre degli esperimenti scientifici.
L’interesse della città nei suoi confronti non passò facilmente, cosa che ha portato la sua storia a fare il giro del mondo. Il suo nome fu citato nelle canzoni, nei film, nelle Serie Tv, e adesso nel nuovo prodotto di Ryan Murphy. Evan Peters, come anticipato prima, dà vita a una delle sue migliori interpretazioni portando in scena l’apatia e la freddezza di uno dei serial killer più macabri della storia americana. Chiunque voglia vedere Mostro – La Storia di Jeffrey Dahmer su Netflix deve prepararsi a veder diventare questi racconti reali. Deve tenersi pronto a vivere in modo diretto il racconto onesto e senza sconti di Ryan Murphy, un regista che ha sempre premiato la nuda e fredda realtà della vita. Mostro – La Storia di Jeffrey Dahmer non fa eccezione alla regola Murphiana, portandovi di fatto a rivivere una delle peggiori storie che abbiate mai conosciuto e che, ancora, porta con sé il peso di ben diciassette vittime e di un’America che aveva provato a denunciare, ma a cui nessuno prestò ascolto.