ATTENZIONE! L’articolo contiene SPOILERS delle due stagioni di Monsters
Esistono differenti tipi di monsters tra quelli che si nascondono sotto il letto? Qualcuno potrebbe dire di sì e distinguere tra i mostri che nascono come tali e quelli che lo diventano a causa di contesto familiare o addirittura sociale. Giù di papeli allora, di dissertazioni filosofiche, di saggi scritti dai più eminenti studiosi che sono pronti a venire alle mani per avere ragione. Il discorso, però, è molto più complicato di così e non si può ridurre a una opposizione a due. Distinguere i due gruppi e riuscire a tracciare un confine netto non è per niente facile come potrebbe superficialmente apparire. Inoltre, il paradosso è dietro l’angolo. Se i mostri diventano tali in virtù di altri mostri, chi ha generato i mostri originali? Facile cadere in un loop infinito, in cui non c’è più inizio o fine.
Di per sé la parola “mostro” evoca immediatamente immagini potenti, spaventose, creature che sfidano l’immaginazione. Un termine che ha subito trasformazioni e rivoluzioni e la cui ambigua etimologia ci rimanda alla sua natura complessa. La parola “mostro” deriva dal latino monstrum, che a sua volta proviene dal verbo monere, che significa “avvertire” o “mostrare”. Nell’antica Roma, un “monstrum” non era necessariamente una creatura malvagia o terrificante, ma un segno o un prodigio. Qualcosa che sfidava le leggi della natura e che era stato inviato per volere degli dèi, e come tale interpretato. Nella mitologia antica, soprattutto di matrice classica, i mostri erano spesso figure tragiche, create dalla divinità di turno per punire o mettere alla prova gli eroi. Oppure, in maniera ancora più feroce, ricettacoli di carne in cui vengono riversati i vizi e i capricci delle divinità, come Medusa o il Minotauro.
Il mostro è da sempre il caos, l’ignoto, l’incomprensibile.
Con il passare dei secoli, il concetto di “mostro” si è evoluto, trovando una nuova espressione nella letteratura e nel folklore. Ma è nella letteratura gotica che i mostri iniziano a riflettere più profondamente l’interiorità umana. Il “mostro” di Frankenstein non è una creatura nata dal caos della natura, ma il prodotto di un esperimento scientifico. Il vero orrore non è nel mostro in sé, ma nella società che lo rifiuta e lo condanna. In questo senso, il mostro diventa un simbolo dell’alienazione e dell’incomprensione umana. Vittime del proprio destino, i mostri dell’età moderna sono creature con cui si arriva perfino a entrare in empatia e dalle quali rimaniamo innegabilmente folgorati.
Così il mostro, ai giorni nostri, diventa il protagonista perfetto di film e serie tv. In particolar modo all’interno di quelle storie dove diventa manifestazione delle nostre paure, pregiudizi e fallimenti. Del Toro, per esempio, è un autore noto per aver portato avanti una narrazione in cui i mostri sono spesso i protagonisti più empatici, messaggeri di diversità e bellezza nascosta. Come per esempio Hellboy o la favola adulta The Shape of Water. In televisione, d’altro canto, Ryan Murphy ha sempre mostrato una particolare predilezione nei confronti degli outsiders, dei negletti. Di tutti coloro che abitano sotto il letto, negli armadi o nelle cantine al buio. Di quegli stessi che sono ormai dimenticati da tempo dal resto del mondo o, peggio, sbeffeggiati da questo.
I monsters di Ryan Murphy sono quasi dei contemporanei Quasimodo, rinchiusi nella loro personale Notre Dame.
Anche le creature di Ryan Murphy assumono così tante sfaccettature e variazioni di grigio da farci domandare se in fondo i veri mostri siano loro o coloro che tengono il dito puntato. Tuttavia se in American Horror Story il monstrum è fragile, spezzata e compie scelte moralmente discutibili solo perché la vita non gli ha mostrato un’alternativa, con Monsters il discorso è ben diverso. La più recente serie tv antologica di Murphy presenta due caratteristiche che bisogna tenere saldamente in mente. In primis, non parliamo più di personaggi inventati, frutto della fantasia dello showrunner, ma di persone realmente esistite e passate alla storia per le loro azioni efferate. Con Monsters, Murphy scava ancor di più nei turpi anfratti dell’animo umano.
In Monsters, Jeffrey Dahmer prima e i fratelli Menendez poi incarnano il modello per approfondire tematiche psicologiche e sociali molto profonde.
Nella prima situazione, il caso Dahmer serve a trattare le problematiche razziali, la negligenza della polizia e il grido disperato di una comunità che ancora oggi stenta a farsi sentire. Jeffrey Dahmer, conosciuto anche come il “Mostro di Milwaukee”, è responsabile di aver ucciso e smembrato diciassette giovani uomini tra il 1978 e il 1991. Le sue atrocità includevano anche atti di necrofilia e cannibalismo, rendendo la sua figura uno dei serial killer più spaventosi e disturbanti della storia. La sua capacità di agire indisturbato per oltre un decennio sollevò interrogativi inquietanti sulle lacune del sistema giudiziario e sulle questioni di razzismo e omofobia che permisero a Dahmer di evitare la cattura per così tanto tempo.
Monster: The Jeffrey Dahmer Story affronta direttamente il concetto di “mostro” in una delle sue forme più agghiaccianti: quella di un essere umano capace di atti inconcepibili di violenza.
La serie non vuole mitizzare o glorificare Dahmer – ci mancherebbe altro – ma piuttosto mettere in scena come un mostro possa esistere all’interno di una persona apparentemente comune. Evan Peters offre una performance inquietante, ritraendo l’assassino come un uomo alienato, profondamente disturbato, ma comunque capace di una calma disarmante. Dahmer è ritratto come un uomo tormentato da pulsioni oscure, che egli stesso non riesce a comprendere o controllare. La serie non cerca “normalizzazione”, ma esplorazione delle origini, dell’isolamento e la sua incapacità di relazionarsi con il mondo circostante.
Nella seconda stagione (disponibile sul catalogo Netflix qui), invece, il caso dei fratelli Menéndez sposta l’attenzione sulle problematiche familiari e su quelle tare genetiche che inconsciamente o meno ci portiamo dietro. Ancora una volta si riaccende la discussione sull’abuso sessuale in ottica maschile, ancora un tabù senza senso. Entrambe le stagioni scioccano, scuotono il pubblico e fanno incavolare un bel po’ di gente. Probabilmente per motivi diversi. Nel 2022, Monster era diventata una delle serie tv più viste di sempre sul catalogo Netflix ottenendo un successo straordinario ma mal indirizzato. Il caso mediatico e l’influenza grottesca che ha suscitato la serie deve aver spinto Murphy a seguire una direzione totalmente diversa per la seconda stagione di Monster. E si vede.
Monsters: Dahmer vs Menéndez
Abbiamo parlato all’inizio di mostri che nascono e mostri che vengono creati. Forse è già questa una primissima distinzione possibile tra le due stagioni? Dahmer era un serial killer dalla mente labile e dai profondi disturbi psicologici. I Menéndez hanno commesso un solo omicidio e sono stati catturati diversi mesi dopo il fatto compiuto. Il mostro Dahmer si presenta al mondo con uno sguardo vitreo e vuoto, la sua mente instabile e le sue pulsioni distruttive trovano realizzazione negli atroci omicidi commessi nell’arco di tredici anni. E, soprattutto, nelle sevizie e nelle perversioni che seguono (ecco le 5 scene più agghiaccianti). Al centro del racconto della prima stagione, Murphy affonda le mani nell’oscurità dell’animo umano. Anche i flashback relativi all’infanzia e all’adolescenza di Jeffrey servono esclusivamente a delineare un quadro quanto più chiaro della sua psicopatia.
Lo stesso tipo di oscurità è solo vagamente percepibile nella storia di Lyle ed Eric Menéndez, mentre è l’ambiguità a regnare sovrana.
Tra un episodio e l’altro, infatti, lo spettatore riceve numerose informazioni su fatti e personaggi che però si contraddicono tra loro. I fratelli Menéndez appaiono ora delle vittime, ora dei carnefici, prima dei sopravvissuti, poi degli assassini. Ragazzi spezzati o spietati narcisisti? Senz’altro, degli assassino. Gli eventi di quella fatidica notte vengono ripresi, modificati e alterati, in modo tale da confondere lo spettatore e lasciarlo intontito. Cosa è accaduto davvero non lo sapremo mai. Gli unici a conoscere la verità dietro la storia di Monsters sono chiusi in prigione a vita o morti ormai da tempo.
Il racconto dell’abuso si ripete come una litania malsana, perdendo a un certo punto di forza ed efficacia durante il processo del season finale. Jose e Kitty sono ritratti come dei genitori amorevoli e poi di nuovo come i veri mostri del mito. La famiglia disfunzionale della seconda stagione fa da contraltare all’opprimente solitudine di Dahmer nella prima. Una contrapposizione evidente nelle dinamiche tra i personaggi, nel ritmo della narrazione e persino nella fotografia. Le atmosfere cupe e perennemente in ombra lasciano il posto a spazi luminosi, a colori vividi ed esageratamente pop.
Un’altra dissomiglianza evidente tra le due stagioni riguarda poi il tono. La prima stagione di Monsters, pur cavalcando l’onda vincente del true crime, strizza particolarmente l’occhio a un altro genere: il thriller.
E, più precisamente, il thriller cupo che ha fatto la fortuna di David Fincher. Il regista è particolarmente noto per la sua capacità di esplorare la mente umana, in particolare attraverso i suoi ritratti di personaggi disturbati e ossessionati. I serial killer di Seven, Zodiac e da ultimo Mindhunter sono molto più che semplici antagonisti. Rappresentano i lati oscuri e complessi della società e dell’individuo, portando lo spettatore a interrogarsi sulla natura del male e sulla sua relazione con la razionalità umana.
Fincher approfondisce la psiche criminale, spesso a discapito del protagonista-detective che rimane impotente di fronte al male. Il mostro Dahmer di Murphy eredita quella visione lì. In Monster appare come il risultato di un mondo complesso, ultimo prodotto di una società in cui la violenza e l’alienazione possono generare individui capaci di atti orribili. Secondo questa visione allora Dahmer è un mostro senza possibilità di salvezza.
Paradossalmente, il tono della seconda stagione rimane più fedelmente ancorato a un genere mainstream come il legal drama.
Nonostante la trama risulti più ingarbugliata e a volte difficile da seguire per lo spettatore. I fratelli Menéndez non sono gli unici protagonisti della vicenda. Attorno a loro gravitano altri personaggi che influenzano il corso degli eventi e che assumono rilevanza man mano che processo raggiunge il suo apice.
Gran parte della narrazione, a partire dalla metà di stagione, ha luogo proprio nell’aula di tribunale dove viene deciso il destino di Lyle ed Erik. Due volte. Ricalcando il vero processo, la difesa dei fratelli Menéndez si basò sull’idea che fossero stati spinti a uccidere per paura, dopo anni di abusi sessuali perpetrati dal padre José. Secondo le testimonianze, Lyle ed Erik furono sottoposti a violenze sessuali da quando erano bambini, e credevano che i loro genitori li avrebbero uccisi per impedire loro di rivelare i segreti della famiglia.
I Menéndez divennero figure quasi mitologiche: giovani, ricchi e accusati di un crimine orribile contro coloro che avrebbero dovuto proteggerli.
Contrariamente al caso Dahmer, quello Menéndez sfidava la narrativa classica del serial killer o dell’assassino freddo e calcolatore. I fratelli, pur avendo commesso un crimine orribile, si presentano come vittime di circostanze familiari estreme che fanno però capo a un’unica, inesorabile, considerazione: la violenza subita da un individuo non può mai giustificare un omicidio.