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L’ammaliante ambiguità stilistica di Moon Knight

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ATTENZIONE: l’articolo contiene spoiler su Moon Knight.

Nel corso degli ultimi anni, il Marvel Cinematic Universe ci ha conquistato con la storia dei suoi supereroi, utilizzando una formula che, per quanto efficace, è sempre stata piuttosto schematica: la genesi dell’eroe, lo scontro con i villain, i momenti di difficoltà per poi arrivare alla redenzione finale. Con l’introduzione di Thanos le carte in gioco sono state sicuramente rimescolate, ma è con la Fase 4 che l’MCU ha davvero iniziato a sperimentare. Basti pensare alla manipolazione della realtà in WandaVision (qui il nostro Behind the Scenes), alla maggiore crudezza di The Falcon and the Winter Soldier, così come al concetto di Multiverso affrontato in Loki (qui vi abbiamo parlato del finale), Spider-Man: No Way Home e il più recente Doctor Strange in the Multiverse of Madness.

Con Moon Knight, la Casa delle Idee ha voluto continuare su questa strada, portando la formula Marvel ai suoi limiti attraverso un approccio fresco e inaspettato. Abbracciando un cambiamento stilistico chepur avendo le sue peccheci ha ammaliato, introducendoci a un personaggio che ha avuto modo di brillare grazie alla mancanza di collegamenti con il passato dell’MCU. Ed è così che ci siamo ritrovati di fronte a una origin story originale, presentataci attraverso il punto di vista di un protagonista che, a causa della sua mente frammentata, ci ha restituito un mondo ambiguo e in continua trasformazione.

Una realtà per la quale L’MCU ha scelto di utilizzare un narrazione non lineare, che oscilla fra deliri e solitudine, misticismo e horror, azione e comicità.

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Tutti elementi che hanno stuzzicato lo spettatore, per poi condurlo in una dimensione più introspettiva e drammatica, che abbiamo potuto scoprire attraverso la dualità fra Steven Grant e Marc Spector: il primo, un timido e introverso commesso di un negozio di souvenir. Un uomo mite e impacciato, appassionato di egittologia e contraddistinto da un delizioso humor inglese con il quale cerca di evitare ogni conflitto. Il secondo è invece un uomo forte, determinato e spesso brutale. Un mercenario al servizio della divinità egizia Khonshu, tormentato da un passato traumatico e aggravato dal peso di una missione dalla quale non può fuggire. Insomma, due personalità molto diverse fra loro che, dovendo condividere lo stesso corpo, finiranno per scontrarsi sempre di più l’una con l’altra.

La realtà percepita e quella psichica vengono dunque messe al centro della narrazione, facendo navigare lo spettatore nelle varie dimensioni della mente scissa del protagonista. Di questa psiche affascinante che ha fornito allo show la possibilità di cambiare continuamente stile, toni, generi e tematiche. Nel corso di sei episodi, Moon Knight non è mai stata infatti uguale a se stessa. Dopo aver introdotto Steven e il mistero della sua insonnia, lo show ci ha portato nel mondo di Marc, contraddistinto da violenza e sangue. Due elementi che, pur essendo già stati esplorati dall’MCU, in Moon Knight sono molto più presenti. Sin dall’inizio, la miniserie presenta infatti un’atmosfera dark e cupa, veicolata da una regia che sfrutta giochi di specchi, campi e fuori campi e un utilizzo della luce molto suggestivo.

Ma come vi abbiamo già detto, questa miniserie non è mai stata uguale a se stessa.

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Dalla violenza e la brutalità si passa infatti all’azione e all’avventura. Basti pensare alle ricerche nel deserto, o alla missione di Steven/Marc e Layla nella tomba a Il Cairo, in cui ritroviamo atmosfere simili a quelle di Indiana Jones e La Mummia. Franchise dai quali Moon Knight si è lasciato ispirare anche per l’introduzione dell’elemento sovrannaturale, che gli ha permesso di sfruttare ancora una volta sangue e violenza, oltre che tinte horror che, seppur contenute, hanno funzionato. Se poi consideriamo la presenza di Khonshu e delle altre divinità egizie, è chiaro quanto la serie abbia voluto dare spazio al misticismo, che trova la sua massima espressione in un aldilà che oscilla fra l’oscurità della Duat e la bellezza dei Campi di Giunchi.

Luoghi che si scontrano con forza con l’asetticità dell’ospedale psichiatrico, una location in cui lo show ha veramente dato il meglio di sé. Introdotto alla fine della 1×04 e centrale nella 1×05, la clinica psichiatrica è il punto di partenza per un viaggio nella mente di Steven/Marc, fra ricordi e traumi, nuove consapevolezze e un’accettazione del dolore che non solo ci hanno fatto comprendere meglio il personaggio, ma anche trovare una risposta all’ambiguità a cui avevamo assistito precedentemente. Un alternarsi di accelerate e frenate che, per quanto sia stato irresistibile in determinati frangenti, in altri si è rivelato meno efficace.

Nel corso di sei episodi, Moon Knight ha affrontato infatti alti e bassi.

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La narrazione non lineare ci ha condotto a eventi inaspettati che hanno saputo catturare il pubblico, soprattutto nelle sequenze introspettive e quelle evocative. Tuttavia, i momenti di tensione psicologica in cui si analizza la mancanza di controllo sulla propria mente sono costruiti talmente bene che quelli più leggeri finiscono spesso per stonare e apparire quasi infantili. Allo stesso tempo, le divinità egizie (salvo Khonshu) non riescono a lasciare veramente il segno sulla storia, andando a depotenziare anche l’Harrow di Ethan Hawke che appare più uno strumento che un villain sulla prima linea di azione. Talmente tanto che è molto più interessante il secondo ruolo che gli viene destinato, in cui risulta molto più convincente.

Anche la CGI non è all’altezza degli standard a cui ci ha abituato la Marvel, che continua inoltre a inserire nella narrazione momenti comici che purtroppo non sempre funzionano. Tuttavia, se in altri prodotti sono fine a se stesse, in Moon Knight le battute risultano più credibili perché legate alle sincere reazioni di Steven di fronte alle assurdità che si ritrova a vivere, così come alle interazioni con “l’uomo americano” che vive dentro di lui. In ogni caso, la comicità è comunque uno degli aspetti più deboli dello show, che ha mostrato alcune lacune anche nella gestione della narrazione: chiusure troppo affrettate, questioni lasciate in sospeso, momenti di buio che, se nei primi episodi ci avevano affascinato, nel finale ci hanno lasciato con l’amaro in bocca.

Ma nonostante lo sbilanciamento narrativo (e visivo in alcune circostanze), Moon Knight non si può di certo considerare un fallimento.

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Seppur ci siamo alcune lacune, lo show riesce nel suo intento di destabilizzare lo spettatore, offrendo qualcosa di diverso rispetto agli standard dell’MCU. È vero, alcuni episodi sono meno convincenti rispetto ad altri, ma nel complesso l’esperienza offerta dallo show è godibilissima. Gli elementi di trama che non reggono vengono bilanciati dalla brillante interpretazione di Oscar Isaac (qui 7 curiosità su questo eclettico attore), che merita da sola la visione della serie. Un prodotto originale e inaspettato, una montagna russa di stili, toni e generi diversi che ben si adattano al personaggio che ci è stato presentato: una personalità schizofrenica che ci viene restituita attraverso una narrazione altrettanto schizofrenica che siamo sicuri abbia ancora tanto da dirci.

La brillante post credits scene ci ha infatti presentato Jake Lockley, un personaggio che metterà ulteriormente alla prova la percezione che gli spettatori hanno di Moon Knight. Un supereroe complesso che, almeno finora, ha dimostrato di brillare più nella dimensione intima e psicologica che in quella action e spettacolare. Ancora non sappiamo quale sarà il futuro di Marc/Steven/Jake. Ma ciò che è sicuro è che Moon Knight ha dato prova di avere un potenziale che, pur non essendo stato sfruttato a pieno, ci ha parlato del desiderio della Marvel di sperimentare. Di uscire da quegli schemi che, per quanto ci abbiamo intrattenuto per anni, potranno solamente beneficiare dal cambiamento.

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