La 4×10 di Mr Robot, “410 Gone”, è la fine di un percorso che da collettivo si fa individuale e ci pone di fronte al nemico più insidioso: noi stessi.
“Confido” è una scatolina metallica che sussurra al nostro orecchio. Sembra in grado di rispondere a qualunque domanda, consigliarci e soprattutto vincere la nostra solitudine. Un’invenzione rivoluzionaria di Henry Bowers, un tecnico di apparecchi acustici senza ambizioni. «Nessuno dovrà più essere solo!» dice Henry.
Ma ben presto “Confido” si rivela essere un sobillatore, una voce interiore che abbiamo sempre soffocato e che ora è terribilmente emersa. Ben presto Ellen, la moglie di Henry, lo intuisce. «Siamo noi? Quella voce siamo noi?». “Confido” mette marito contro moglie, amici contro amici, figlio contro madre. Ma non è che noi stessi. E, alla fine, a Henry e Ellen non rimane altro che seppellire quell’arnese. Soffocarlo sotto il perbenismo e la cordialità dei rapporti.
Perché quella voce è la voce peggiore di noi stessi.
“Confido” è un racconto breve di Kurt Vonnegut, il romanziere americano citato da Leon. Un racconto scritto circa settant’anni fa, quando Alexa non era che un sogno nella mente fantasiosa di uno scrittore. Ora, però, in Mr Robot, “Confido” si è incarnato in Alexa. È diventato quello che è sempre stato: la tremenda illusione di superare artificialmente la solitudine.
Tale è per Dom che abita nell’incuria di una casa senza affetti, sola e incapace di vivere davvero. La vita scivola via, mentre la ragazza si crogiola nell’illusione di una tresca amorosa, nella solitudine della masturbazione, nell’idealizzazione dell’amore per Darlene. Nell’interazione con Alexa. “Non è una persona, non è reale, non è tua amica. È solo un robot che usi per comprare tovaglioli di carta. Guardati intorno: Dom, questa è vacuità” .
La Dark Army non c’è più, è un alone, un riflesso opaco. Eppure, nella vita di Dominique l’ombra oscura di un’armata invisibile non la lascia mai. Come incubi Leon e Irving le si parano davanti: le ricordano sempre che in lei non c’è pace, che l’ombra le impedisce un sonno tranquillo. “Cinque anni. Sono cinque anni che non dormo davvero, a parte qualche incubo“.
La missione è conclusa.
Quella sinfonia che ha riconnesso insieme tutti i protagonisti positivi di Mr Robot si è chiusa tra le grida di giubilo e gli applausi scroscianti delle persone che hanno ottenuto l’insperata redistribuzione delle ricchezze. Ma ora, cosa rimane? Le luci si spengono, il palco si svuota. Rimaniamo soli. Noi, a fare i conti con il nemico più terribile e oscuro, quello che ci sobilla all’orecchio e semina solitudine: noi stessi.
La missione collettiva, sinfonica e corale si fa così individuale, perché inevitabilmente l’ultima lotta non può che essere quella interiore. Mentre il finale di Mr Robot si avvicina, ecco che Darlene e Dominique sono chiamate ad affrontare i propri demoni. Quei demoni che, come affermava Elliot nella prima stagione “Non smettono mai di lavorare, sono sempre attivi; ci seducono, ci manipolano, ci possiedono. […] Tutti dobbiamo affrontarli da soli“. Ecco i sobillatori, ecco “Confido” e “Alexa”. Siamo noi che parliamo a noi stessi, con il nostro Io più oscuro.
L’armata oscura nella lotta finale diventiamo così proprio noi. Dominique è incerta, claudicante. Balbetta, si ferma, torna sui suoi passi. È avvinta dalla paura, vuole rifugiarsi in quella casa vuota e spoglia, riflesso della sua altrettanto solitaria e marcescente interiorità. Stagna in quel letto parlando a una scatolina metallica e al peggio di sé stessa. Sola.
Anche Darlene, in Mr Robot, convive con i suoi demoni.
La sua è la paura di ogni uomo: quella di essere soli. Si appoggia sempre agli altri: a Cisco, a Elliot, a Mr Robot, a Dom. Non ha il controllo della propria vita. Come Elliot anche Dom e Darlene sono in balia di sé stesse, incapaci di gestire le proprie anime interiori e prendere una direzione certa. “Non riesco a farlo da sola“, “Da sola non riesco a fare nulla“, singhiozza Darlene. Gli attacchi di panico sono il suo Mr Robot.
Ma, proprio come Elliot con il suo alter ego, anche le due ragazze trovano la forza per saltare l’ostacolo, per superare quella voragine che si era aperta sotto i loro piedi. E così, uscendo dal sudiciume stantio delle proprie stanze, si mettono in moto. Vanno avanti. “No, I got it“, ripete a sé stessa Darlene, padrona come non mai delle sue emozioni. “No, I’m good” fa eco Dom, poco prima di sprofondare in un sonno finalmente sereno.
La solitudine che tanto temiamo diviene così forza. La voce di Alexa si acquieta, distrutta dalla consapevolezza di chi siamo e da una determinazione che non sapevamo di avere già. Nessuno sobilla più alle nostre orecchie. Quelle paure interiori si fanno controllabili: non siamo più soli.
Ora è il turno di Elliot, il nostro turno.
Dovrà scavare dentro di sé e rivelare quell’anima oscura seppellita sotto una convinta negazione. Ma prima occorre distruggere la sua “Confido”, la macchina rivoluzionaria di Whiterose, capace di sobillare seducente all’orecchio. Perché a Elliot quella scatola metallica dà la possibilità di annullare tutto e riscrivere il passato cancellando il dolore.
Potrebbe portarlo a “fare un salto”, “take a leap” (doppio senso con “fare un goccio”, “urinare”), come afferma Leon riprendendo una citazione di Trout, ricorrente personaggio delle storie di Vonnegut, convinto che gli specchi siano portali per altre dimensioni. Alla fine del romanzo “La colazione dei campioni” Vonnegut in persona rivelerà a Trout che non è nient’altro che una sua creazione, donandogli il libero arbitrio prima che quest’ultimo scompaia in un portale dimensionale.
Ma chi è il creatore e chi il creato? Chi, il “my friend” a cui ci rivolgiamo nei nostri discorsi interiori? Starà a Elliot scoprirlo e abbracciare la libertà finale. Quella di una scelta finalmente autonoma. Senza più Mr Robot che sussurrino maliziosi al suo orecchio tenedolo all’oscuro delle stanze segrete della sua mente. Finalmente padrone di sé stesso e direttore di un’orchestra interiore a cui manca, però, ancora uno strumento. Il più inquieto e, forse, inquietante.