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Mr. Robot – Il teatro e il suo triplo

Mr Robot
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Quando “Il teatro e il suo doppio” vide la prima pubblicazione, Antonin Artaud si trovava forzatamente ricoverato in un manicomio. Nei fitti confronti epistolari degli anni precedenti Artaud sottolineava a più riprese come “Il pensiero mi abbandona a tutti i livelli, fino alla sua materializzazione attraverso le parole“. Da piccolo era stato colpito da una meningite acuta che più o meno fondatamente è vista come causa di tutti i suoi successivi mali, dalla depressione alla balbuzie, alla nevrastenia. Per tutta la sua vita Artaud, anche alla luce di questi problemi, aveva ricercato ostinatamente, ossessivamente un’essenza che andasse oltre le parole, oltre la costruzione logica e sequenziale del pensiero. Più di chiunque altro, il giovane Antonin sentiva che al di là delle parole -quelle parole che gli venivano meno costantemente- e del pensiero -che lo abbandonava “a tutti i livelli”- c’era qualcosa che rimaneva fermo, immacolato, inattaccabile.

Questo qualcosa, come vedremo, è ciò che anima anche Mr Robot.

Finale
Mr Robot (640×360)

La ricerca dell’essenza intangibile eppure indistruttibile dell’uomo spingeva Antonin, paradossalmente, verso il teatro, quel palcoscenico di apparente falsità e imitazione del reale. Per Artaud il teatro però era altro, doveva essere più di questo. Doveva e poteva essere il modo per esprimere l’uomo in maniera immediata come le parole sono espressione immediata del pensiero. Il teatro, per Artaud, sarebbe stato – ne era sicuro – parola creatrice divina, atto con cui gestualmente, fisicamente, materialmente concretare l’uomo e la sua essenza.

Un’uguale ricerca di autenticità animava Brecht, l’altro grande drammaturgo del Novecento, anch’egli ben consapevole che un cambiamento fosse indispensabile per il teatro.

I due, però, non potevano essere più diversi: per Brecht il teatro doveva comunicare a livello concettuale, per Artaud, invece, a livello istintuale, inconscio, immediato. Antonin, che sentiva progressivamente venire meno il pensiero e la parola, era sicuro che ci fosse un altro modo, più istantaneo, che non il pensiero e la parola, per creare un ponte con lo spettatore, con l’uomo. Sperava e credeva convintamente che fosse così. Ma non sapeva come renderlo possibile.

Fu la visione di uno spettacolo di danza balinese ad aprirgli la mente: quei gesti, così ritualistici, esatti, meditati eppure insieme liberi, immediati, istintivi ed emozionanti erano la risposta. Un teatro fisico, reale, in cui più che le parole contasse il simbolo messo in scena, il rituale rappresentato. Non un’imitazione del reale ma l’essenza più profonda che sta dietro quel reale. In questa logica, allora, il teatro non è il doppio della realtà, non è la sua scaduta, incerta e insoddisfacente riproduzione, vacua imitazione. No, è la realtà a esserne il doppio, la concretizzazione fisica di quel movimento creatore, di quel fiat lux che il teatro mette in scena.

Il teatro e il suo doppio
Mastermind (640×360)

Il teatro diventa terreno dello spirito inconscio e quindi di ciò che produce il reale, che dà forma al reale. Non è la realtà, dice Artaud, a produrre l’uomo ma l’anima psicologica dell’uomo a modellare la realtà. Sam Esmail, nel suo capolavoro più grande, Mr Robot, ha interiorizzato e accolto il messaggio di Artaud al suo massimo grado. Quello che vediamo in Mr Robot è il teatro, cioè il movimento interiore di Elliot, grandioso protagonista di questa pièce.

È Elliot in Mr Robot che modella la realtà, che produce un doppio e da questo doppio, perfino, infine, un triplo.

Ciò a cui assistiamo è una realtà tutta interiore, un immaginifico point of view del protagonista, in cui la visione è immancabilmente, irrimediabilmente condizionata e plasmata da lui stesso. Ce ne rendiamo conto in maniera evidente nella seconda stagione che soltanto nella mid season rivela la falsità di quel mondo che ci era stato messo davanti. Ma è tutto Mr Robot che gioca sul relativismo conoscitivo, sulla possibilità che le cose non stiano esattamente come ci appaiono.

Il punto di vista è interno e guarda verso l’interno, indaga il protagonista da un protagonista. È una ritualità fatta non tanto di parole ma di gesti: Elliot come Artaud sembra dissociato nel pensiero e nell’espressione verbale eppure ha, come avrebbe voluto Antonin per le sue “maschere” teatrali, un’immediatezza espressiva che non necessita altro che della sua presenza. La maestosa recitazione di Rami Malek si condensa negli espressivi occhi, nei gesti misurati, negli sguardi negati, nel portamento ricurvo. Non c’è bisogno di parole perché quello che abbiamo di fronte è una danza balinese che arriva dritto al nostro inconscio, che ci emoziona profondamente parlando una lingua segreta e immediata che bypassa il mezzo comunicativo del linguaggio.

Mr Robot
Elliot Alderson (640×360)

Ma c’è di più.

Sam Esmail mette sì in scena il teatro e il suo doppio, cioè la natura di Elliot e la realtà vista attraverso di lui ma fa anche un ulteriore salto. In quella realtà che si fa doppio del teatro, a sua volta, si crea un ulteriore livello. Perché in maniera quasi metafisica (metà ta physikà, al di là della realtà fisica) quello che vediamo è anche l’ulteriore materializzazione dell’inconscio del protagonista, triplicato nelle sue istanze interiori, nel suo Io, Super-Io ed Es. Non è solo Sam Esmail, il regista, a produrre un doppio ma anche lo stesso protagonista, Elliot a farlo con se stesso. E così ci troviamo di fronte al teatro e al suo triplo.

Un teatro, cioè, che rappresenta la realtà interiore per mezzo del regista, creando un doppio, e di un secondo, diegetico regista (l’Elliot “Mastermind” nella serie) arrivando al triplo.

Quanto più raddoppiamo e triplichiamo la rappresentazione tanto più, invece di scadere, la visione si approfondisce, va in profondità, scende a fondo nel protagonista. Non è più soltanto la realtà esterna a essere relativa ma perfino quella interna di Elliot (o meglio di quello che crediamo essere Elliot) ad arricchirsi di significati e triplicarsi. Non più soltanto un protagonista ma tre diverse entità che agiscono e interagiscono tra di loro, contrastandosi o collaborando in un incessante, straordinario teatro psicologico.

In questa messa in scena, per usare le parole di Artaud, “Si sprigiona il senso di un nuovo linguaggio fisico basato su segni e non più su parole“, ci si rivela “L’esistenza sotterranea di una sorta di vero linguaggio scenico, di una tale efficacia che sembrerebbe abolire perfino i movimenti spirituali che sembrano avergli dato nascita, e tale da rendere impossibile e inutile ogni traduzione in parole… C’è dell’assoluto in questa sorta di costruzioni nello spazio, uno stile di vero assoluto psichico“. Guardando Mr Robot, guardando Elliot agitarsi e riempire col suo dedalo di “gesti, atteggiamenti, grida lanciate nell’aria” la scena, siamo avvinti da una forza ancestrale, da un’emozione che non sappiamo spiegarci.

Qualcosa che ci muove e commuove a un livello profondo e inesprimibile a parole.

Mr Robot
Darlene (640×360)

Quella di Mr Robot e in Mr Robot è un’azione scenica che ci fa anche male, che ci mette a parte del dolore, di quel “teatro della crudeltà” che per Artaud era l’essenza più profonda possibile per l’uomo, una volta liberato dai legacci morali e dalle ipocrisie. Per il drammaturgo nell’animo umano sono realtà oscure e dolorose in costante contrasto tra di loro, impossibili a conciliarsi. Così è anche in Mr Robot seppur nella spiegazione del finale queste sofferenti istanze del protagonista riescono a convivere in un tenue, ritrovato equilibrio in cui nessuna sopravanza l’altra.

Artaud morirà da solo, nella sua stanzetta, con un scarpa follemente tenuta in mano.

Non avrà mai comprensione da parte della società, da quel mondo ipocrita che l’aveva rinchiuso in un istituto psichiatrico e relegato alla sua fatale solitudine. A distanza di settant’anni, però, Sam Esmail sembra aver voluto riavvolgere il tempo, tornare a quel momento, tornare da Artaud e dirgli che non è solo, che c’è chi lo capisce. Il regista di Mr Robot ha voluto donargli e donarci una speranza. La speranza che il mondo, il nostro mondo interiore, può cambiare, che possiamo tornare padroni delle nostre vite, tornare a essere pienamente noi stessi, grazie all’abbraccio d’amore. Che è quello che Artaud non ha mai avuto e che Elliot ha trovato in Darlene. Mr Robot ci ha urlato, insomma, che dietro e oltre la crudeltà del doppio c’è anche la bellezza e la speranza del teatro e del suo triplo.