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Chi è la donna dai capelli blu che si vede alla fine di Mulholland Drive? E i due anziani? Cosa rappresenta il vagabondo? Perché Dan appena lo vede, girando l’angolo, muore? Cosa sono la scatola blu e la chiave? Sono tante le domande che solleva quello che paradossalmente è il film più leggibile e comprensibile di David Lynch. Una pellicola che anticipa tante tematiche proprie dei successivi lavori del regista. Il significato dell’elettricità (che qui troviamo legata alla figura del Cowboy) e del vagabondo tornano per esempio in Twin Peaks: The Return, serie che ci ha catapultati in un nuovo universo emozionale.

Ma andiamo con ordine, partendo dalla trama e dalle due dimensioni che Mulholland Drive ci mette di fronte. Nella prima, che occupa gran parte del film, fino a mezz’ora dal termine, conosciamo Betty, ragazza gentile, solare e buona. È arrivata a Hollywood per tentare la fortuna ed è ospite nella casa della zia. Appena atterrata saluta due amorevoli anziani che aveva conosciuto in volo e che le augurano convintamente il meglio per il suo futuro. Altrettanto amorevole è Coco, l’affabilissimo gestore del complesso di abitazioni che comprende la casa della zia di Betty. L’appartamento è, tra l’altro, straordinario: elegante, ampio, lussuosamente arredato. In una breve inquadratura, molto stretta, notiamo anche un libro, Tout Paris, un’espressione, questa, che si lega alla descrizione dell’alto tenore di vita della Parigi bene.

Insomma, tutto evoca classe e successo.

Lo stesso successo che non tarda ad arrivare per Betty, dopo un provino in cui stupisce tutti per maestria. E se il regista Adam non la sceglie per la parte nel suo film è solo perché viene costretto da una banda di mafiosi a selezionare la loro raccomandata, Camilla Rhodes. Anche in amore tutto a gonfie vele per la giovane di belle speranze arrivata dal Canada: l’incontro con la smemorata Rita porta a un flirt con pieno coinvolgimento di entrambe. A trenta minuti dalla fine del film, però, e dopo una scena assai esplicativa, quella al Club Silencio (su cui ci soffermeremo tra poco) tutto cambia. Una scatola blu, una volta aperta, ci conduce in un’altra dimensione dove le cose sono molto diverse.

Club Silencio
Rita e Betty al Club Silencio, là dove cade il muro della finzione (640×360)

Qui Betty si chiama in realtà Diane Selwyn, venuta sì dal Canada a cercar fortuna ma dimostratasi presto attrice mediocre, capace solo di guadagnarsi qualche parte minore e per giunta esclusivamente grazie all’aiuto di “Rita”, che in realtà si chiama Camilla Rhodes. Il regista (Adam) non ha avuto nessuna folgorazione per Betty/Diane, Coco è la madre di Adam e la relazione con Camilla, pure reale, si è però sgonfiata lasciando il posto a rabbia, senso di inadeguatezza e invidia. Ora Camilla, attrice di successo, sta per sposare proprio Adam.

Come è facile intuire, delle due dimensioni quella reale è proprio quest’ultima. La scatola blu ha rappresentato una sorta di ponte che ci ha permesso di attraversare i due mondi. Quello che ha occupato gran parte del film non è altro che una rappresentazione onirica, la proiezione sublimata di aspirazioni e desideri di Diane. In questa realtà tutti le sono benevoli, lei stessa è dolce e buona oltre che talentuosa e tutto procede per il meglio. Il Club Silencio ci ricorda però d’improvviso che questa rappresentazione è falsa come la canzone che prosegue senza la sua cantante e senza banda. No hay banda.

Tutto, insomma, è apparenza, costruzione onirica e mentale che sostituisce una realtà dalla quale Betty/Diane vuole estraniarsi perché troppo difficile da accettare.

Irene, la dolce vecchina che aveva incontrato sull’aereo, nel momento in cui Betty esce di scena, dopo pochi minuti dall’inizio di Mulholland Drive, continua a tenere un sorriso stereotipato che si trasforma, come quello del marito, in un ghigno distorto. Questo perché entrambe le figure sono costrette, in questa realtà, a essere buone, a essere bendisposte nei confronti di Betty, essendo un suo parto mentale. In questo momento rappresentano cioè quelle che nella tradizione mitica greca era le Eumenidi, divinità benevole. Ma già si intravede la loro trasformazione. Quando infatti torniamo nella realtà le Eumenidi mutano rapidamente in Erinni, forma orrorifica di quelle stesse divinità, che perseguitavano gli assassini fino alla morte. Capire il perché di questo cambiamento è piuttosto semplice: Diane nella realtà ha commissionato il delitto di Camilla ed è ora tormentata dai sensi di colpa. I due anziani rappresentano appunto questo rimorso che spinge alla fine la protagonista al suicidio.

Anziani
I due anziani nelle scene iniziali di Mulholland Drive (640×360)

Perché proprio due anziani? Nella realtà mentale di Diane non sono altro che proiezioni di figure genitoriali, freudiani Super-Io di cui si ricerca disperatamente l’approvazione (il Super-Io si manifesta spesso in forma di anziano perché a queste figure si attribuisce autorevolezza e importanza). Nella realtà, naturalmente, diventano persecutori per l’inadeguatezza e la mostruosità che Diane ha dimostrato (il Super-Io è sempre giudicante, castrante). La differenza tra Betty e Diane, d’altronde, è evidente fin da subito: la stessa voce, nella realtà di Diane, diventa più sciatta, sbiascicata, cattiva, cinica. Così anche l’aspetto della donna (per non dire dell’atteggiamento) risulta più trasandato rispetto a quello della solare Betty. La comprensione di cosa rappresenti il vagabondo passa proprio da qui: in una scena, all’immagine di questo mostro (per interpretare il quale Lynch volle un’attrice donna) succede subito quella di Diane. La loro sovrapposizione è totale: come in Twin Peaks: The Return anche in Mulholland Drive il vagabondo è figura negativa, parte delle forze del male. Si identifica qui con Diane stessa, con il suo lato peggiore, con la malvagità di chi commissiona un omicidio.

Ma allora perché quel personaggio secondario, Dan, muore appena vede il vagabondo? Per capirlo dobbiamo confrontare la scena della sua morte, che avviene solo nel mondo onirico di Betty/Diane, con quella reale. In quest’ultima Dan non è altro che un cliente del diner in cui si trova Diana nel momento in cui decide di far uccidere Camilla. La sua unica colpa è di averla guardata: uno sguardo involontario, comune, come se ne rivolgono a bizzeffe in una giornata qualunque. Nella mente di Diane, però, quello sguardo, associato al momento in cui fa la scelta di assassinare Camille diventa altro: diventa uno sguardo giudicante, come il Super-Io, capace di leggerle dentro, capace di vedere il marcio che c’è in lei, il suo mostruoso vagabondo interiore. E per questo non può che essere condannato a morte, sopraffatto da tanto orrore e fatto fuori per eliminare il senso di colpa prodotto da questo surrogato del Super-Io.

Ancora qualche dettaglio prima di dirigerci verso la comprensione del gran finale di Mulholland Drive.

Coco, la madre di Adam, nella realtà non è affabile con Diane come nel mondo mentale. Al contrario è dapprima scostante e poi compassionevole: accarezza la mano della ragazza solo perché commisera il suo insuccesso e la sua mediocrità (lo fa infatti dopo che la ragazza ha rivelato i suoi fallimenti lavorativi). Quel gesto acuisce nella protagonista di Mulholland Drive la rabbia e l’invidia che raggiungono il culmine al momento dell’annuncio del matrimonio di Adam e Camille. È, non a caso, lo stesso gesto che rievocano i due anziani sul taxi, a inizio film, come ad anticipare il crollo dell’illusione e il trionfo del fallimento. E il Cowboy? Un semplice invitato alla festa di Adam: uno qualunque come il già citato Dan e come, sempre alla festa, il “mafioso”. Il Cowboy si associa nella mente della ragazza al momento dell’annuncio del matrimonio (quando compare sullo sfondo) e quindi rielaborato come figura negativa, deus ex machina che impone al regista la scelta di una protagonista raccomandata. Alle sue comparse (tre se il regista non avesse fatto la scelta giusta, come tre sono le istanze mentali, Io, Es e Super-Io) si associa la presenza dell’elettricità che, come sappiamo da Twin Peaks: The Return è simbolo del male, veicolo di trasporto di una distorsione negativa.

Mulholland Drive
Il vagabondo (640×360)

ll nome di Betty è ripreso dalla semplice targhetta di una cameriera mentre la sovrapposizione tra Rita e Betty con la parrucca bionda indossata dalla prima non è altro che l’espressione (sublimata) del desiderio di Diane di essere Camilla, di identificarsi con lei e con la sua vita di successo. “Sembri un’altra persona“, afferma infatti Betty. Il corpo putrefatto nella stanza è ovviamente quello della vera Diane, prefigurazione di un suicidio che la sua mente sta già meditando. E la chiave con la scatola blu? Nella realtà la chiave viene consegnata a Diane dal killer assoldato, che non ne rivela però la funzione. Il suo significato è comunque chiaro: rappresenta un codice per segnalare l’avvenuto delitto.

La scatola non esiste, se non nella mente di Diane (perché la sua psiche deve dare una spiegazione alternativa alla chiave). Con la visione della chiave (che mette in connessione le due realtà), invece, appaiono i due anziani, ormai mostruose Erinni, che conducono alla morte la ragazza. Fuoriescono cioè i sensi di colpa, che sappiamo essere legati all’omicidio commesso. Fino a quando Diane, nel sogno, non apre la scatola può ancora fingere e sperare che l’assassinio non sia avvenuto. Nella sua realtà onirica, infatti, Rita si salva miracolosamente e il killer è un imbranato (speranza inconscia che abbia fallito nell’uccidere Camilla). Quando, però, nella realtà Diane guarda la chiave e nel sogno Betty apre la scatola l’illusione cade e il senso di colpa (le Erinni), alimentato anche dai probabili detective che battono alla porta, la sopraffà. Non a caso la scatola blu, nel sogno di Betty, è il mezzo che la riporta alla realtà, a come cioè stanno davvero le cose. La fa tornare con i piedi per terra per il crudo simbolismo che ha (la conferma dell’avvenuto omicidio).

Nell’enigmatico finale, su di un palco con un sipario rosso (che immediatamente ci richiama Twin Peaks) una figura femminile dai capelli blu chiude il film con le parole “Silencio”.

Si tratta probabilmente della scena di più difficile interpretazione dell’intero film. Alcuni elementi però vengono in nostro aiuto. Il sipario rosso e il colore blu posticcio dei capelli (stesso colore della scatola) vogliono indicarci che ci troviamo in una dimensione diversa da quella reale, onirica o metafisica. La parola “Silencio“, che rimanda al club e di cui si è già data interpretazione, lo chiarisce ulteriormente. Ma chi è la donna? Potrebbe trattarsi della personificazione della Morte, che chiude così il sipario della vita di Diane oppure l’ultima istanza interiore che sopravvive in lei negli istanti conclusivi della sua vita, quando tutto il resto si affievolisce fino a scomparire: il suo Es, liberato dai legacci dei sensi di colpa del Super-Io.

Mulholland Drive
La donna dai capelli blu che chiude Mulholland Drive (640×360)

Mulholland Drive, come si è visto, rispetto ad altri film di Lynch e a Twin Peaks stesso ha il grosso vantaggio di fornirci una visione che non è esclusivamente soggettiva ma che mette in raffronto la dimensione onirica con quella reale permettendoci così di dare un’interpretazione accurata alle scene. Per questo motivo rappresenta davvero il film chiave per la comprensione del criptico simbolismo lynchano. È da questa lettura che possiamo partire per provare a districare la matassa di opere ermetiche del regista quali Eraserhead, Strade Perdute e Twin Peaks: The Return. Ma questa è un’altra storia. Che, forse, ci sarà tempo per raccontarvi.