Il più grosso rischio dell’adattamento televisivo (o cinematografico) di una storia vera, in particolare di una biografia di un personaggio come Pablo Escobar, è quello da un lato di cadere nell’ovvio, dall’altro di glorificare (o demonizzare) il protagonista della storia. L’azione di un regista e di uno sceneggiatore è dunque fondamentale per evitare tali situazioni e rimanere, seppur nella propria interpretazione, vicini alla realtà. Narcos dunque parte con una implicita scommessa non facile da vincere, quella di produrre una serie biografica (e questo significa che molti telespettatori sanno già come va a finire la storia) che riesca a tenere l’osservatore attaccato allo schermo. La scommessa è stravinta; 10 puntate (e non le solite 13 a cui la produzione Netflix ci ha abituati) potenzialmente godibili tutte d’un fiato, e che, viste le sole prime 5 portano già il telespettatore a pensare: “Deve esserci una seconda stagione, impensabile il contrario”. Ed è proprio il tema biografico che conquista, unito allo squisito espediente di recitare in spagnolo (con sottotitoli in inglese) buona parte della serie, per mantenere assolutamente realistica l’ambientazione.
Inevitabilmente dunque la storia ha uno sviluppo fresco, rapido: la voce fuori campo dell’agente della DEA americana Murphy (personaggio principale e narratore onnisciente, Boyd Holbrook), racconta opportunamente e in maniera pungente gli eventi a cui lui e il suo collega Pena (Pedro Pascal, Oberyn Martell di “Game of Thrones”) hanno dovuto fare fronte nella Colombia degli anni 70-80. L’evento principale si chiama Pablo Escobar, quello che da molti è considerato il più grande (e in questo caso non è un complimento) narcotrafficante della storia colombiana, ma anche mondiale.
L’interpretazione di Wagner Moura è magistrale: nell’intento della sceneggiatura c’è senza dubbio l’obiettivo di disegnare non solo il delinquente, ma anche (e forse soprattutto) l’uomo. Una personalità di cui non ci viene detto molto, ma che per esempio riesce a creare l’incredibile paradosso di sentirsi, con i soldi guadagnati dal contrabbando della droga, il Robin Hood che vuole aiutare i poveri, schiacciati (a suo parere) dall’oppressione dei politici colombiani, che lui ambisce a sostituire. Il mezzo che Escobar ritiene unico risolutore dei suoi problemi è riassunto nel detto “Plata o plomo”: o ti lasci corrompere, oppure ti tocca morire. Automaticamente la corruzione è un tema dilagante in tutta la serie, che come un virus infetta quasi tutti, dai piani bassi a quelli più alti; tutti tranne il responsabile di un gruppo speciale creato per l’arresto di Escobar. E non è dunque un caso che all’ascesa del criminale venga fatta corrispondere la rovinosa caduta dei politici colombiani (eccezionale, nella capacità di trasmettere il senso di impotenza dello Stato, è la scena della distruzione delle prove nel tribunale).
Accanto quindi all’aspetto documentaristico, diligentemente centrato dalla serie, il già citato quadro dei rapporti umani di Escobar (la moglie, i figli, la madre, il migliore amico, l’amante) viene più volte sottolineato dalla stessa voce narrante, e sarà un tema costante fino all’ultima puntata. In questo calderone di elementi precisamente individuati e intrecciati tra loro, non mancano continue frecciatine agli Stati Uniti e alla loro mania di interferire nelle questioni degli altri paesi (non a caso l’agente Murphy è un americano che lavora in Colombia).
Narcos è una serie che fa della suspense, della accuratezza dei dettagli e della capacità di migliorarsi puntata per puntata i propri punti di forza; il suo successo planetario (e le numerose candidature ai principali premi del settore) ne è la dimostrazione. Netflix ha fatto centro ancora una volta, creando un autentico gioiello, in attesa di un’impresa ancora più ardua: rendere la seconda stagione più bella della prima.