L’arresto di Gilberto Rodrìguez, il capo pacifico dei Narcos di Cali, ha indebolito il cartello solo all’apparenza. L’uomo, un serpente a sonagli dell’intrigo e della manipolazione, è abile a sfruttare la sua influenza per ricevere il rispetto che merita in carcere, intimidire i detenuti solo con la sua presenza, per quanto minuta e all’apparenza fragile, comandare dall’interno della sua cella tutto quello che accade nel mercato della droga della Colombia.
Ora il potere è in mano al fratello Miguel, che cerca di tenersi buoni i numero 2 del narcotraffico, il cartello di Norte del Valle, che per quanto ostenti tranquillità saannusare benissimo la paura. I padrini di Norte del Valle sanno benissimo che il fianco dei Gentiluomini di Cali è scoperto, e aspettano solo il momento giusto per affondare il colpo e prendersi il posto più alto sul podio. Miguel deve dimostrare di poter essere un capo all’altezza del fratello, deve tirarlo fuori dal carcere, ma allo stesso tempo fiutiamo in lui la soddisfazione per la posizione raggiunta, nonostante il prezzo pagato, nonostante l’odore dell’appagamento si senta appena, coperto da tonnellate di timori e insicurezze.
Ad approfittare del momento di difficoltà del cartello di Cali è anche la polizia, quella vera: Van Ness e Feistl, la nuova coppia di questa stagione di Narcos, riaprono la base operativa già usata per la lotta a Pablo Escobar, e vi si stabiliscono, ignari del fatto che i mille occhi dei padrini li seguiranno ovunque.
Ma a seguirli, in questa puntata, sono soprattutto gli occhi di chi ha visto troppo: Jorge Salcedo, addetto alla sicurezza e padre di famiglia, sempre più con la mente fuori dall’ambiente del cartello ma con i piedi ancora dentro le stanze del potere. Salcedo assiste all’esecuzione del poliziotto corrotto Calderòn, a cui lui e il suo capo Cordova avevano addossato la colpa di aver involontariamente guidato la DEA fino a casa di Gilberto. Poi assiste all’esecuzione dello stesso Cordova, che, preso dal panico, aveva compiuto l’errore fatale di scappare; troppo per lui, capace di mostrarsi impassibile e illeggibile a qualsiasi tentativo di manipolazione, ma emotivamente distrutto. A Salcedo spetta la decisione forse più difficile di tutta questa stagione di Narcos; spingersi così vicino al potere per potersene allontanare, stringere un patto con la polizia che potrebbe essere la sua salvezza o un patto col diavolo.
Peña, intanto, è sempre più frustrato dall’incapacità di far valere il suo lavoro e il coraggio che ci vuole a farlo. Lo vediamo, in apertura di questa quinta puntata di Narcos, mentre subisce il discorso dei suoi capi sulla cattura di Gilberto Rodrìguez, come se sul banco degli imputati ci dovesse stare lui, Javier Peña, e non il padrino del cartello di Cali.
Il peso delle cose da fare, e lo schiacciamento che deriva dall’impossibilità di farle, lo incupisce e lo sfiducia sempre più. Questa terza stagione di Narcos, se da una parte segna la nascita di una figura di poliziotto diversa da quella solare e ingorda di vita delle precedenti, dall’altra fa naufragare la personalità di Peña in un vortice di sfiducia e tormenti che lo trasformano in una figura quasi tragica, nella sua integrità assoluta che mal sopporta di vivere in un mondo di corrotti. Peña, d’altro canto, usa il fascino, eredità delle prime stagioni, per tentare di carpire la fiducia di Christine, moglie americana di uno degli uomini satellite del cartello di Cali, Franklin Jurado; la sua testimonianza potrebbe essere la chiave per chiudere per sempre in cella Gilberto, e per aprire le porte del carcere al resto dei padrini.
La quinta puntata di Narcos è cruciale per definire la scacchiera su cui si andrà a giocare la grande battaglia di questa terza stagione; una stagione che diversifica le sfumature del male, definisce e insieme smantella le personalità dei personaggi, fa nascere e insieme fa appassire la speranza di sconfiggere il male. Male che, per quanto in alto abbia messo radici, sentirà sempre dal basso la spinta del cambiamento.