Attenzione: spoiler su Narcos!
Ti ricordi quando da bambino ti chiudevi in una stanza e una volta solo con la porta chiusa non eri sicuro che il mondo fuori continuasse ad andare avanti? Quando non li vedo, i grandi continuano a parlare?
È il narcisismo del bambino: unico fulcro delle sue esperienze, il bambino percepisce il mondo come sua emanazione e non riesce a comprendere come (o perché) il mondo possa esistere anche quando lui non ne è parte e protagonista.
Pablo Escobar è quel bambino: grande, potente, terribile.
Capiamoci, non sto riducendo Narcos a un gioco di bambini: Narcos è un’epopea del male.
Come in un laboratorio chimico mescola gli elementi più reattivi (droga, soldi, potere, morte) per poi osservare (naturale, bellissima) la manifestazione del male.
Un male che qui, ancora, a differenza di quello che succederà nella terza stagione e in Narcos: Messico, ha una faccia e un volto, un’impersonificazione: Pablo Escobar.
La cosa peggiore? Pablo non se ne rende conto.
Come il bambino narcisista, Pablo è esattamente al centro del mondo e ogni sua azione non è buona o cattiva (un’etica, questa, che non lo riguarda), è – semplicemente – necessaria.
Proprio perché vede il mondo come una sua emanazione, il narcisista cerca il controllo completo sul mondo. E Pablo Escobar, con il suo carisma, la sua intelligenza, le sue armi, lo ha davvero questo controllo.
La prima parte di Narcos è esattamente questo: il delirio di un narcisista il cui mondo risponde con una conferma. Hai ragione, sei Pablo Escobar, puoi avere tutto ciò che vuoi.
Chi non ricorda la prima scena? Pablo sa tutto degli agenti che cercano di bloccare il suo camion che trasporta articoli di contrabbando: si complimenta per la mamma uscita dall’ospedale di uno, per la mamacita que es la fidanzata dell’altro, suggerisce che il piccolo Carlito potrebbe volere una TV nella sua stanza.
Gli agenti e le loro famiglie sono pedine in una scacchiera manovrata solo da Pablo, un mondo in cui è lui a dettare azioni e conseguenze (Plata o Plomo), un mondo in cui sarà il Presidente della Repubblica di Colombia.
Yo soy Pablo Escobar Gaviria: questa l’unica, sufficiente, ragione.
E infatti, finché le cose vanno come devono andare, Pablo è un signore, il re. Non perde mai il controllo: voce sicura, mezzo sorriso e sarcasmo gratis.
La parola giusta per definire Pablo è entitled (non credo ci sia un giusto corrispettivo in italiano): ha i titoli, le carte in regola per essere quello che è e fare quello che fa. Ha tutti i diritti. È lui, in fondo, che ha donato le case ai quartieri poveri di Medellin, che ha assoldato schiere di ragazzi senza presente e senza futuro. Lo fa per droga? Lo fa per motivi non etici? Questo, a Pablo, passa un metro sopra la testa.
Per lui non etico non significa cattivo ed etico non significa buono: per Pablo Escobar è buono tutto ciò che serve al suo piano.
Non a caso il piano supremo di Pablo è diventare Presidente della Colombia: il ruolo definitivo, avere il paese in pugno, essere al di sopra del bene e al di là del male.
Detto questo: la storia è storia. Tutti sapevamo che Pablo Escobar non sarebbe diventato Presidente della Colombia. Eppure, mano sul cuore, se non lo avessimo saputo probabilmente ci avremmo creduto. Vero?
Perché è questa la forza inarrestabile di Narcos: stiamo guardando la storia, i fatti, dal punto di vista di Pablo.
Proprio come lui si è creduto invincibile, noi lo abbiamo creduto invincibile. Proprio come lui ha amato se stesso di un amore carnale, univoco, accecante, così lo abbiamo amato noi.
Abbiamo vissuto lo stesso brivido di Pablo quando abbiamo visto un ragazzo di neanche 18 anni salire su un aereo e poi farsi esplodere ancora ringraziando il Patron. Solo un brivido, niente grida di dolore: solo l’eco di una sensazione soffocata dalla megalomania e dal rumore di un obiettivo più grande.
È dal momento in cui Pablo viene cacciato ufficialmente dal Congresso che comincia la discesa: è esattamente in quel momento in cui sentiamo, violenta, la realtà che si scolla dalla visione.
Per Pablo, il mondo impazzisce, non si sta più comportando secondo norma, non ubbidisce più all’unica legge della sua volontà.
Ed è qui che cominciamo a vedere il vero e proprio delirio: l’impotenza e la frustrazione sono benzina sul fuoco della rabbia di Escobar.
Esplosioni, omicidi gratuiti e dimostrativi: è crollata ogni struttura (seppur perversa) di bene e male. Gli sforzi di Pablo servono solo a riportare il mondo nelle briglie di una logica comprensibile.
La morte del cugino, le parole di rifiuto del padre: sono tutte mosse assurde, incomprensibili eppure vincenti, di un mondo sfuggito al controllo che avanza su una scacchiera stretta e costringe Pablo a patetici movimenti difensivi, come il tentativo di raccontare alla radio le sue pene di perseguitato.
Quello che si chiede allo spettatore è un percorso di crescita: a te, spettatore, si chiede di uscire un po’ alla volta dagli occhi di Pablo, di fare un passo indietro e guardare la verità.
L’essere invincibile con cui ti sei immedesimato, lo spacciatore più forte dell’intera Colombia, è in realtà un uomo fragile, schiavo sottomesso alla sua visione e alla rabbia esplosiva di non avere più il controllo.
Guardalo bene, esto es Pablo Escobar Gaviria. Non un bambino padrone del mondo, solo un maiale infilzato su un tetto.