Disponibile dal 16 novembre sul catalogo Netflix, Narcos: Messico è molto di più di un semplice spin-off.
Il nuovo capitolo della serie, che ormai possiamo quasi definire antologica, ci mostra quanto è riduttivo definirlo solo uno spin-off o reboot. Narcos: Messico è un prodotto parallelo al più celeberrimo cugino colombiano da cui tutto è nato. La serie può essere vista anche come un prodotto a sé, nonostante ci siano riferimenti al mondo della droga colombiana. Bisogna definirlo come un nuovo atto di una scena teatrale, un ramo robusto che cresce spingendosi lontano dal tronco.
Narcos: Messico è ambientato negli anni ’80, quando il narcotraffico era ai livelli di un’organizzazione familiare scomposta, becera e acerba.
I protagonisti sono sempre i due schieramenti opposti: il narcotrafficante in prova, Miguel Ángel Félix Gallardo (Diego Luna), e il poliziotto della DEA Kiki Camarena (Michael Peña). Ciò che la serie mette subito in chiaro è però l’inesattezza della divisione tra bianco e nero, buono e cattivo. Tutto è labile, il grigio è il colore predominante, l’umanità è la chiave dei personaggi. Da non intendere come sinonimo di bontà: l’umanità qui spicca nelle scelte estreme e senza speranza dei personaggi.
Félix Gallardo inizialmente voleva soltanto salvare la sua famiglia, portare la pagnotta a casa. Le sue scelte però lo hanno portato presto a confrontarsi con il baratro dell’avidità monetaria.
Félix Gallardo ha scelto di voler dimostrare di essere capace in qualcosa, ha scelto l’inarrestabile corsa dell’ambizione, la stessa che poi potrebbe (lontanamente) accomunarlo con Walter White di Breaking Bad. Non lo fanno per i soldi, lo fanno per riscatto morale personale. Perché a primo impatto, ciò che viene in mente guardando Miguel, è proprio l’opposto della fisionomia del narcotrafficante. Se lo mettete a confronto con Pablo Escobar, troverete solo il narcotraffico come punto in comune.
Stessa cosa succede a Kiki. La sua incessante volontà di contrastare il narcotraffico è mossa da una sua idea di rivalsa. Vuole dimostrare ai suoi colleghi che lui è capace di fare qualcosa di più di loro. Due uomini in due realtà opposte che sembrano così stranamente vicini. La loro volontà esplode in ossessione, una ricerca forsennata per la legittimazione della loro rivalsa.
Oltre a una solida scrittura dietro la creazione di questi due mostruosi personaggi, ci sono due attori che ne enfatizzano la bellezza a tutto tondo. La loro recitazione è piena di sfumature e sfaccettature che li rendono terribilmente reali e umani. Come anche l’interpretazione di Rafael Caro Quintero, fondamentale per l’ascesa di Miguel.
Rispetto al precedente, Narcos: Messico ha un narrazione più ritmata, mantenendo sempre una tecnica perfetta e quel taglio semi-documentaristico, che ci accompagna nelle puntate sfumando verso la fine. I primi episodi pongono le basi, presentano i personaggi, mostrano il punto cruciale dell’evoluzione delle varie plaze separate, fino alla congiunzione attraverso il piano di Félix Gallardo.
Per poi aumentare d’intensità, episodio dopo episodio, enfatizzando l’azione a discapito forse di scelte banali per sbrigare il tutto, semplificando la linea narrativa fino a esplodere in un finale drammatico dove non vince nessuno.
Un finale dove lo sguardo volge diritto verso un futuro fatto di crescente violenza, lanciando anche dei personaggi secondari verso un futuro da co-protagonisti.
La struttura esterna della narrazione e delle tecniche impiegate nelle varie stagioni di Narcos permette così ai creatori di togliere la materia prima interna e inserirne una nuova, senza però cambiare il risultato.
Narcos: Messico si conferma un prodotto di una serie che non delude mai, anche cambiando ambientazione e protagonisti. Una serie tv che chi ha apprezzato la precedente storia ambientata in Colombia, non potrà non amare con linearità. Una conferma che permette a Netflix di sfoggiarla ancora tra i suoi tesori più preziosi.