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Narcos: Messico, la recensione della seconda stagione

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L’abbiamo aspettata per più di un anno e ora, finalmente, Narcos: Messico è tornata. La prima stagione della serie ideata da Carlo Bernard e Doug Miro – gli stessi della versione colombiana – era stata rilasciata da Netflix nel novembre del 2018 e ha raccontato l’ascesa del narcotrafficante Miguel Ángel Félix Gallardo a capo del cartello di Guadalajara.

Come un ex agente federale di Sinaloa sia riuscito a diventare uno degli uomini più potenti del Messico, la prima stagione lo illustra alla perfezione, in dieci episodi che non ci hanno fatto sentire per niente la mancanza dei colombiani. Quindici mesi dopo è arrivata la seconda stagione, con uno straordinario Diego Luna ancora nei panni di Félix e con l’arrivo di Scoot McNairy – nella prima stagione solo voce narrante – ad interpretare l’agente della DEA Walt Breslin.

L’inizio è subito imperioso e travolgente. Ci avevano promesso una guerra e davanti a una guerra ci siamo ritrovati. Senza esclusione di colpi, senza mediazioni, senza compromessi. Lo strapotere e l’arroganza dei narcotrafficanti si combina alla perfezione con la sete di vendetta dei gringos, furiosi e incavolati più che mai dopo la morte del collega Kiki Camarena, barbaramente ucciso nella sua missione in Messico. La guerra alla droga assume qui dei connotati diversi: non è più la semplice caccia alla polvere bianca, ma diventa una questione personale. Ognuno ha le proprie motivazioni, ognuno le proprie ragioni.

Ne viene fuori un quadro di violenza e brutalità che non accennano a placarsi e che, al contrario, crescono e si alimentano episodio dopo episodio.

I personaggi che avevamo conosciuto nella prima stagione di Narcos: Messico ci sono tutti, o quasi.

Manca naturalmente Michael Peña, che aveva dato il volto all’agente della DEA Kiki Camarena, morto nel finale della prima stagione. Manca Tenoch Huerta nei panni di Rafaél Caro Quintero, finito in manette proprio per una soffiata di Félix. Ma gli altri ci sono tutti. C’è ancora la sfrontata e audace Isabella, un animale ferito che rosicchia gli spigoli per non rimanere fuori dai giochi. Ci sono i fratelli Arellano Felix, Benjamìn e Ramón in cima a tutto, ma anche l’ambiziosa sorella Enedina, uno dei tanti volti nuovi della serie, che a Tijuana devono fare i conti con la rivalità crescente tra i membri della Federazione. Ci sono Héctor Palma, Cochiloco e un sempre più centrale Joaquìn Guzman, in arte El Chapo, che da Sinaloa smuovono le fondamenta del cartello messicano. E c’è Amado Carrillo Fuentes che insieme a don Pablo Acosta gestisce i traffici che passano per Juarez.

E poi c’è lui, Miguel Ángel Félix Gallardo, nei suoi abiti di seta pura, sempre raffinato, sempre impeccabile. La sua semplice presenza abbaglia: andatura disinvolta, sguardo vigile, ogni gesto accuratamente programmato.

È il vero re della festa, quello a cui governatori, politici e alti funzionari vogliono stringere la mano. Una pacca sulla spalla, un mezzo inchino con la testa, e fiumi di gente che tentano di arricchirsi arraffando dalla sua scia. Félix ha costruito un impero nel quale tutti si trastullano e se la spassano in attesa della tempesta. Un novello Giulio Cesare, come gli piacerebbe definirsi, che invece del “divide et impera” ha adottato l'”uni et impera”, unisci e comanda. La Federazione che ha creato dal niente si è ingrandita e arricchita fino a toccare i vertici, ma quando ci sono di mezzo soldi, cocaina e pistole, il lieto fine non esiste.

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La seconda stagione di Narcos: Messico si dispiega attraverso tre filoni principali: i contrasti interni tra le piazze, l’operazione Leyenda dell’agente Walt Breslin e il tentativo di Félix Gallardo di arrivare sulla cima più alta.

E poi ci sono loro, i colombiani del cartello di Cali, che per Félix sono i veri nemici da annientare.

Diventerò il padrone dei colombiani in sei mesi.

Di nuovo la linea temporale della serie si allinea a quella di Narcos Colombia e con essa si fonde, regalandoci ancora una volta un eccezionale Alberto Ammann nei panni di Don Pacho Herrera.

La guerra aperta tra Félix e Don Pacho è in realtà una guerra fredda: non si spara in campo aperto, non si combatte in trincea, ma si mordono i fianchi dell’avversario muovendo meticolosamente le pedine sullo scacchiere del narcotraffico americano. È tutta una questione di accordi, alleanze, potere.

Ma Félix è un uomo solo che vuole raggiungere la cima e non si accorge che le fondamenta traballano.

Quando ci sono guai ai vertici, si crea spazio per altri.

È don Neto a dirlo, tornato per una breve, fugace apparizione, ma comunque densa di significato.

E Joaqun Cosio non è l’unico personaggio dell’universo di Narcos a comparire di nuovo nella serie. Troviamo infatti, oltre a Pacho Herrera, anche l’agente della CIA in Nicaragua Bill Stechner, che avevamo già conosciuto nelle passate stagioni, l’agente Jaime Kuykendall e, a sorpresa, l’addetto alla sicurezza Jorge Salcedo, comparso più per una questione di fanservice (come in questi altri casi) che per altro.

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Accordi segreti, politica, poteri che vacillano: la seconda stagione di Narcos: Messico è un vero calderone pronto a esplodere.

E a farne le spese è prima di tutto Félix Gallardo.

In questa stagione, più della precedente, cerca di esplorare tutto il sommerso di un personaggio come Félix. Le sue ansie prendono corpo sotto forma di sogni e flashback nostalgici. È un uomo che possiede tutto, ma che, se si guarda attorno, non trova nessuno con cui condividerlo.
La faida tra le piazze di Tijuana e Sinaloa, il tradimento di Juan Nepomuceno Guerra, le elezioni presidenziali, la spina nel fianco rappresentata dai colombiani, sono solo alcuni dei segnali di allarme che fanno vacillare l’impero. Le fondamenta si disgregano e la fine è vicina. Tutti se ne accorgono, Félix compreso. Ma la sua smania di raggiungere la vetta gli annebbia la mente.

Narcos: Messico ci mostra l’ascesa di un re fino all’apice del potere. Ma, raggiunto quel culmine, resta solo il precipizio. La Federazione si sgretola dall’interno, il sogno di Félix si frantuma una volta per tutte. Il re è solo alla sua tavola. Isolato, braccato, sconfitto.

Questa serie sa raccontare come poche altre il mondo criminale del narcotraffico. Sa riportare personaggi, fatti e storie veramente accadute con un tocco romanzesco che lascia di sasso e crea dipendenza.

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La colonna sonora e le inquadrature sempre impeccabili fanno tornare la voglia di Messico anche a chi non c’è mai stato. Sanno andare a fondo, come pennellate che riportano in superficie il lato più poetico e mitico di quella terra, con tutte le sue tradizioni e i suoi bandidos. È cruda, brutale, senza filtri. Il confine tra buoni e cattivi talmente labile che è impossibile schierarsi senza riserve. È una serie che si modella sulla rabbia dei propri personaggi. Messicani, colombiani, gringos, buoni, cattivi: tutti incazzati, tutti assetati di una sete insaziabile e autodistruttiva.
Non è ancora al livello delle prime stagioni della versione colombiana, ma non ce la fa rimpiangere più del dovuto.

L’unica domanda alla quale vogliamo una risposta immediata è solo questa: quando uscirà la terza stagione?

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