Ci sono alcune serie che, nell’immaginario comune, hanno contribuito a far crescere e arricchire alcuni generi televisivi; Narcos è una di queste serie, ma non lo è soltanto in riferimento al genere gangster, infatti, la serie Netflix è un vero e proprio trattato su come dovrebbe essere realizzato un biopic. Complice la vastità di informazioni sulla vita di Pablo Escobar e dei membri del Cartello di Cali, oltre all’appetibilità narrativa che le loro gesta possiedono, seppur in senso negativo, c’è un ottimo lavoro di fondo svolto sulla scrittura e lo sviluppo dei tanti personaggi marginali che hanno contribuito a rendere Narcos una delle serie più amate degli ultimi anni. Certo, si tratta di un tipo di prodotto non adatto proprio a chiunque, per via, in primis, della violenza e della presenza di immagini dure da digerire, tutte figlie di azioni partorite da alcune delle menti criminali più subdole e malvagie di tutti i tempi. Tuttavia, vista la qualità del prodotto Narcos e tutte le caratteristiche che la rendono una serie unica nel suo genere, oggi vogliamo provare a convincere tutti che Narcos è una di quelle serie da dover vedere almeno una volta nella vita.
Narcos per un fan del biopic crime…
Partendo dal presupposto che è quasi impossibile che un fan di questo genere non abbia mai visto Narcos, è comunque giusto ribadire l’importanza che questa serie ha avuto, oltre che sottolineare tutti i dettagli che l’hanno resa un vero e proprio punto di riferimento del genere. Narcos è, prima ancora di essere una serie gangster (o crime, per l’appunto) un biopic davvero ben pensato; le prime due stagioni ruotano attorno alla figura di Pablo Escobar, il capo assoluto del Cartello di Medellin, nonché il narcotrafficante più famoso della storia, un uomo capace di mettere letteralmente in ginocchio un intero paese, sfidando il governo per coltivare le proprie ambizioni personali. La funzionalità del progetto, dunque, si scrive da sé: far ruotare la narrazione attorno alla figura di Pablo Escobar e al racconto dettagliato del modo in cui questi gestiva il proprio impero criminale è, senza ombra di dubbio, un biglietto da visita vincente per gli amanti del genere; Narcos, spinta dalla forza accumulata con le prime due stagioni, riesce poi ad andare oltre, spostando l’attenzione sui padrini del Cartello di Cali, reinventandosi in un tipo di narrazione (corale) molto diverso, che finisce comunque per essere un successo. La forza di Narcos sta nel riuscire a far duettare al meglio la realtà e la fantasia, il biopic e il romanzo; l’intera serie è accompagnata dalla voce narrante degli agenti Murphy e Peña, che nonostante abbiano realmente ricoperto un ruolo di spicco nell’arresto del narcotrafficante (Pablo Escobar), non hanno mai un confronto ravvicinato con lui, e questo aspetto non è un limite, anzi, viene utilizzato proprio per rafforzare l’idea di grandezza del “villain” della serie.
Il punto di vista più “utile” ai fini della trama è proprio quello dei padrini chiamati in causa, che finiscono per assumere le sembianze di “antieroi”, nel momento in cui vengono dipinti alle prese con la propria quotidianità, nonostante questa sia caratterizzata principalmente da azioni e crimini atroci: Pablo Escobar ha una famiglia, una madre, una moglie e dei figli che, come in una famiglia ordinaria, gli restituiscono amore incondizionato; Pacho Herrera fa breccia nel cuore degli spettatori, nonostante la sua posizione, per il modo in cui gestisce liberamente il proprio orientamento sessuale, cosa che nel suo mondo è di difficile comprensione e accettazione. Per quanto riguarda ciò che un buon biopic dovrebbe saper raccontare, subentra il lato didascalico di Narcos, che non si avvale soltanto del punto di vista “contaminato” dei due agenti della DEA protagonisti della missione anti-narcotraffico, ma ricorre spesso e volentieri a video e immagini di repertorio, fin dalla stessa sigla, utili per testimoniare la veridicità dell’orrore narrato, oltre che dello sfarzo in cui vivevano i protagonisti della serie. La fedeltà della ricostruzione dei fatti narrati è un punto a favore della serie, che si avvale dunque di un romanzamento obbligato nella rappresentazione del quotidiano dei narcos, ma che da contraltare utilizza, a più riprese, testimonianze di ogni genere, che attestano e avvalorano il dramma e che, e non è di certo un aspetto scontato, restituiscono allo spettatore il “gusto” di comparare la finzione alla realtà, tema che sta alla base del successo del genere biografico.
…e per i più scettici
Ribadiamo quanto detto prima: Narcos non è per tutti; esibizione della violenza, messinscena dell’atrocità delle gesta dei personaggi e dinamiche politiche e sociali a dir poco spaventose: Narcos non si risparmia mai, ma lo fa con buon senso, anche perché probabilmente, quanto raccontato, è soltanto la punta dell’iceberg dietro alle reali dimensioni dell’orrore che i padrini del Cartello di Medellin e del Cartello di Cali hanno causato alle persone che hanno vissuto tutto ciò sulla propria pelle. Perché mostrare e, soprattutto, voler vedere tanta violenza? Resta questo il quesito da superare per poter essere pronti a dare una chance a Narcos. Una risposta, tuttavia, non possiamo darvela, ma ciò di cui siamo certi è che Narcos, a prescindere dalla messinscena di certe spaventose tematiche, fa molto di più. Si prenda in esame, per esempio, la figura di Jorge Salcedo, il capo della sicurezza del Cartello di Cali che, nella terza stagione, vive un vero e proprio dramma personale causato dalle scelte che è obbligato a compiere: è usanza comune “accusare” questo tipo di prodotti di non raffigurare mai adeguatamente la “parte buona”, ossia lo Stato o chiunque, nel suo piccolo, opponga resistenza ad autentici regimi del terrore; in Narcos questa rappresentazione viene fornita eccome, e assume ruoli e pesi diversi. La rappresentazione del male è uno dei dilemmi più contraddittori della narrativa moderna, perché i cattivi affascinano, è innegabile, e più sono malvagi e si spingono oltre, più hanno attrattiva.
Ma Narcos riesce, a differenza di molte altre serie di questo genere, a fornire fin da subito un punto di vista a cui aggrapparsi per remare contro i cattivi: gli agenti Murphy e Peña, il genio informatico Salcedo e tutti i rappresentanti dello Stato libero (quello colombiano), sono parte integrante del mosaico narrativo della serie, nonostante nell’immaginario comune vengano messi da parte di fronte all’ingombrante posizione assunta da criminali del calibro di Pablo Escobar o dei fratelli Rodriguez Orejuela. Narcos è un’opera davvero completa nel suo genere, perché parte da presupposti forti e ben saldi e gestisce la propria narrazione in modo uniforme, senza dare l’idea di strafare o di esagerare, ma senza mai osare, nemmeno per un secondo, ad avvicinarsi umanamente a nessuno dei “cattivi”: la rappresentazione umana dei narcos è parte integrante della trama, perché anch’essi sono esseri umani, ed è proprio questo contrasto, così necessario, ad avvalorare la ripugnanza dei gesti da loro commessi. Fin dai primi momenti la storia di Narcos ci viene presentata come un “noi contro gli altri”, e tutto ciò che ne segue è la rappresentazione, il più fedele possibile, di ciò che un’operazione come quella gestita dalla DEA comporta, tra morti e sacrifici che non si vorrebbero mai vedere, ma che fanno parte di quella che è stata (e continua a essere oggi), a tutti gli effetti, una guerra contro il male in persona.