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Comicità spicciola

NCIS: Los Angeles
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E’ un qualsiasi pomeriggio autunnale di quando ancora ‘ste piattaforme non ci avevano rovinato la vita (!). Hai meno di diciotto anni, hai da poco finito la pennichella pomeridiana post pranzo (che fa sempre il suo sporco lavoro), decidi di sequestrare il telecomando al fratello/sorella minore e ti lanci su Italia 1, con la speranza di imbatterti in un cult della tua gioventù. Ma c’è NCIS: Los Angeles. Sei indeciso tra spegnere tutto e riprendere il dialogo con il cuscino o cimentarti in un improbabilissimo pomeriggio poliziesco, un genere che hai sempre snobbato e sdegnato. Chissà perché, chissà per come, decidi di dargli una chance, immergendoti in una storia cominciata da tempo immemore, ma che non cambierà mai.

NCIS: Los Angeles e quell’inspiegabile sapore di casa

ncis: los angeles
NCIS: Los Angeles

E va bene tutto perché la trama è semplicissima, la capisci ancora prima dei titoli di testa. Non fosse per i duecentomila nomi da ricordare tra un’indagine e l’altra, ma tanto vabbè, non ti ricorderai mai di nessuno di loro. E poi c’è quel pizzico di comedy che ti stuzzica. Non sai perché ma vuoi sentire l’ennesimo viscido tentativo di approccio di Deeks o le punch-line da padre di famiglia americano basic di Sam. Ed è sempre la stessa storia: la comicità ruota tutta attorno a situazioni effimere che non ti lasciano niente, alcun ricordo. E’ davvero difficile rendere appetibile un prodotto come NCIS: Los Angeles, viene da pensare, eppure, in rappresentanza del filone del crime “leggero”, è uno di quelli che vende di più a livello global-mainstream, da sempre. E ci dev’essere un motivo, anzi più di uno. Personaggi stereotipati al massimo, trama di immediata comprensione, circolarità narrativa soddisfacente e quella spolverata di comedy dal sapore cringe (per le nuove generazioni). Ma che bisogno c’è di rendere questi agenti indistruttibili e incorruttibili anche dei simpaticoni? Vogliamo proprio odiarli? E invece, chissà perché, il meccanismo funziona, anzi, sembra che tutto sia incastrato ancora più alla perfezione. Gli episodi scorrono, i nomi dei criminali pure (che poi la maggior parte vuole far saltare in aria mezza California e francamente mi sembra un po’ esagerato, ma vabbè), e a te sembra di rimanere sempre nello stesso punto, tanto che dopo un po’ le liti tra Kensi e Deeks cominciano a farti sorridere, Hetty diventa il tuo idolo (lei è un’eccezione perché, effettivamente, lo dovrebbe essere a prescindere) e il machismo di Sam ti fa sentire a tuo agio. NCIS comincia a sapere di casa.

Patrick Jane le sa tutte, ma proprio tutte

The Mentalist

Un altro grande uomo in grado di catalizzare l’attenzione su di sé e strapparti un sorriso in quei freddi e uggiosi pomeriggi autunno/invernali è il protagonista di The Mentalist, the one and only, Patrick Jane. Qui però il livello di comicità aumenta, forse perché ci sono meno superman da contorno a smorzare l’entusiasmo, forse perché, che ne so, il personaggio di Rigsby più che a Rambo somiglia a una versione ordinata su Wish di Marshall Eriksen. Fatto sta che The Mentalist è la dimostrazione che con un po’ di impegno si può ottenere un risultato quanto meno vicino alle aspettative, perché Patrick, per quanto infallibile, oltre ad avere i suoi punti deboli ha anche la capacità di detonare le situazioni scomode e gli intrighi di trama con il suo modo di fare ironico e pungente, con la sua attitude da svitato maniacale che sembra vivere in un mondo tutto suo, di difficile comprensione, ma che in fin dei conti ha sempre la soluzione in tasca e per arrivarci non rinuncia ai fuochi d’artificio. E questo suo modo canzonesco di smascherare il cattivo, ridicolizzandolo e impartendogli una lezione, ti piace, eccome. Vedere come Jane si prende gioco dei pazzi che incontra e dei suoi ignari colleghi (e anche qui via di stereotipi a nastro), non ha prezzo, con quella sua faccia da schiaffi facili che lascia esterrefatto ogni essere umano con cui si interfaccia. E poi diciamocela tutta, The Mentalist è il crime leggero più real che ci sia, nessuno somiglia neanche lontanamente a un super eroe, anzi, a volte ci sembra di avere a che fare con degli inetti imbranati, ma poi arriva Jane e risolve tutto, e a noi va benissimo così.

Lunga vita a Damon Wayans

Lethal Weapon

Riusciresti mai ad immaginarti il buon vecchio Michael Kyle di Tutto in famiglia prendere parte a sparatorie mortali con tanto di esplosioni spettacolari che da sole occupano metà budget ad ogni puntata? Gli sceneggiatori di Lethal Weapon sì, e con risultati decisamente notevoli. La serie, trasposizione televisiva adattata ai giorni nostri del cult con Mel Gibson e Danny Glover, decide di non risparmiarsi su niente (e forse è anche un po’ per questo che è durata poco), puntando su cachet importanti, effetti speciali straripanti e tutto ciò di più costoso che ci si possa immaginare per questo tipo di prodotto. A differenza di NCIS: Los Angeles c’è meno coralità e, a differenza di The Mentalist, in cabina di comando ci sono ben due comici nati, Roger Murtaugh (Damon Wayans) e Martin Riggs (Clayne Crawford), poliziotto buono e poliziotto “cattivo”, angelo e demone, cane e gatto. Il premuroso padre di famiglia che è stato letteralmente prelevato dalla nota sitcom dei nostri cuori (e della nostra infanzia) e trasportato a Los Angeles in un dipartimento di polizia pieno di personaggi allucinati e allucinanti, e dall’altra parte il tormentato e spericolato texano che non ha paura di niente e di nessuno e che, non fosse per il crimine da combattere, passerebbe le giornate ad alcolizzarsi e scatenare squallide risse da bar (ma ha anche dei difetti). In realtà Lethal Weapon di difetti ne ha da vendere, ma si tratta di uno dei migliori esempi di come il mondo della serialità a questi livelli non sia mai cambiato e non cambierà mai, perché fa tutto parte di un loop infinito che da fuori schifi ma che poi, una volta concessoti, impari ad amare, perché sà tremendamente di casa.

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