Nel mare nero dei true crime, la vera grande novità degli ultimi anni, ogni tanto qualcuno si distingue: è il caso di American Murder, girato dalla regista Jenny Popplewell e distribuito da Netflix con il sottotitolo La famiglia della porta accanto. Come fa intuire il titolo, il documentario ci racconta la storia di una famiglia da pubblicità del Mulino Bianco, ideali come vicini e perfetti come nucleo familiare. Madre, padre e due figlie piccole sono lo spaccato ideale per rappresentare il vecchio sogno americano, fatto di famiglie medio-borghesi che vivono in un quartiere idilliaco e che sembrano anni luce distanti da qualsiasi problema. Ma come spesso accade è proprio dietro quelle staccionate bianche, dietro quei giardini i cui si potrebbe giocare a golf e quelle porte dalle maniglie lucide che si annida il dramma.
American Murder è un documentario puro, pazzesco, perché non ha alcuna scena ricostruita, nessuna intervista, nessun raccordo, nessun racconto. Questa è la più grande differenza rispetto a tutte le altre produzioni dello stesso filone (qui parliamo del caso Cecil Hotel e del killer dei gatti). Tutto quello che vediamo sono le immagini reali di quei giorni, tanto che lo spettatore rimane quasi confuso, incapace di capire se sia un’opera di fiction o no. Tutto è reale, purtroppo. L’ennesima storia che racconta quello di cui può essere capace l’Uomo, non inteso tanto in questo caso come essere umano ma come genere maschile. Una storia che vi farà star male, che riuscirà a straniarvi e vi porterà a profonde riflessioni su quanto il genere umano possa cadere in basso. Non corriamo troppo però, procediamo per gradi e iniziamo dalla storia vera di quei drammatici giorni.
Frederick, Colorado, 15 agosto 2018
Questo è il giorno della tragedia. Della storia allucinante di Chris Watts e della sua famiglia, una moglie e due bimbe molto piccole. La storia di una giovane donna con già un matrimonio alle spalle e che adesso, dopo un periodo passato a elaborare il lutto precedente e riprendersi, ha trovato adesso quello che sembra uno splendido uomo e uno splendido padre, Chris. Durante il documentario vediamo immagini gioiose della loro famiglia, loro due e le piccole bambine. E vediamo in un video anche il momento in cui la donna scopre di essere incinta per la terza volta e lo comunica al marito. Un sogno, una famiglia perfetta. La realtà però non è quella mostrata nei video e nelle foto destinati ai social network. Dopo pochi minuti dall’inizio di American Murder: La famiglia della porta accanto, capiamo infatti che è successo qualcosa di terribile.
Shanann e le sue bambine sono infatti scomparse nel nulla. Subito la produzione aumenta di ritmo e ci catapulta nel mezzo del dramma grazie alla telecamera di un poliziotto che visita Chris. Qui l’effetto è straniante perchè quella prima visita dentro la casa di Chris è quella reale, una cosa che mai vista. Quindi tutte le reazioni di Chris, tutte le frasi, tutti i comportamenti, sono quelli realmente avvenuti. Il violare quella casa stupenda e linda dove, però, sono scomparsi 3 abitanti su 4 crea un senso di inquietudine e allo stesso tempo devasta lo spettatore. Quello che più turba lo spettatore è il fatto che il docu-film non prova ad analizzare le cose, non prova a capire le ragioni di alcuni gesti, non fa della psicologia. Si limita semplicemente a raccontare una tragedia attraverso un metodo del tutto innovativo: le immagini reali di quanto accaduto dall’inizio dell’indagine.
La rivoluzione di American Murder: La famiglia della porta accanto
Già dai primi fotogrammi si capisce che American Murder contiene nei suoi 82 minuti una novità che sabota la natura del genere documentaristico: la produzione è un found footage, ovvero un film quasi interamente assemblato con immagini esistenti. Non troviamo la consueta ricostruzione ex post, con l’intervistato che parla in camera in campo medio e le immagini di copertura girate dopo i fatti, in modo più o meno banale a seconda del regista. Il docu-film invece si affida a registrazioni reali, che riportano lo svolgersi degli eventi in presa diretta. Com’è possibile? Da una parte ci sono le telecamere della polizia americana, che gli agenti sono tenuti ad indossare nella divisa e dunque registrano la prima chiamata per la scomparsa di Shanann, con l’arrivo di Christopher e l’ingresso in casa.
Dall’altra c’è il carattere della stessa Shanann, molto attiva su Facebook, che tende a registrare la vita della famiglia e delle bambine passo dopo passo, evidentemente affetta dalla sovraesposizione dei social e dalla auto-scrittura di se stessi, tipica di oggi, per cui la vita è tutta meravigliosa e si ama il proprio lavoro. Per questo American Murder è un found footage a tutti gli effetti. Nella produzione non viene messa in scena la ricostruzione dell’indagine col senno di poi, ma la registrazione di essa mentre avviene, nell’attimo stesso in cui si svolge, davanti ai nostri occhi. Questa è l’enorme e scioccante novità introdotta dal documentario. Un film sull’oscura socialità del nostro tempo, sulla tendenza irresistibile a registrare tutto. Un film sconcertante che non stupisce, ma che ti colpisce con un pugno lo stomaco: nell’epoca dei selfie e dei video di se stessi, del narcisismo e dell’autoconvinzione, non c’è niente di strano nel riprendere la caduta nell’abisso.