I creatori di Black Mirror sono tornati su Netflix con un progetto che – non appena sfornato sulla piattaforma – ha fin da subito fatto rumore. Death To 2020 è un documentario che racconta la maggior parte delle vicende accadute nell’anno appena passato. Fin qui sembra tutto bene: un racconto, un susseguirsi di immagini, le interviste. E invece no. Death To 2020 non è un documentario qualsiasi. Tutto è recitato: gli esperti, gli scienziati, la gente comune, sono tutti degli attori. Tutto è finzione, tranne quello che raccontano. Ma quello che fa la differenza è il come lo raccontano.
Lockdown, Covid-19, elezioni presidenziali statunitensi, incendi in Australia, Donald Trump, Boris Johnson, Black Lives Matter: tutto dentro soli 70 minuti.
Death To 2020 è un racconto cinico, politicamente scorretto, privo di insegnamenti morali e musichette tristi di sottofondo: ed è per questo che ci piace. I creatori di Black Mirror hanno raccontato solo la verità dei fatti non drammatizzando ciò che già da sé era drammatico, non hanno utilizzato la vulnerabilità dei telespettatori dandogli in pasto un prodotto che potesse empatizzare con loro. Ciò che hanno fatto si è fin da subito distaccato dal prototipo di pellicola che aspettavamo. Quello che ci si poteva aspettare di fronte a questo documentario, infatti, era un messaggio, una speranza, la prova visiva che tutti non siamo mai comunque stati soli. E invece, in maniera crudele e impeccabile, Death To 2020 ci informa che si, eravamo tutti soli.
Per raccontare il 2020, la pellicola utilizza attori come Hugh Grant, Samuel L. Jackson, Lisa Kudrow, Tracey Ullman, Cristin Milioti e Laurence Fishburne nella veste di narratore degli eventi.
In maniera chiara, viene descritto l’anno senza nessuna lacrima o messaggi incoraggianti. Death To 2020 è un prodotto che, sostanzialmente, produce risate lì dove sono state versate lacrime ma non per questo non fa riflettere. Ogni ironia, ogni frase sarcastica ha un fine e un significato ben più profondo. Scava all’interno del telespettatore mostrandogli quanto spesso – in questo anno, ma più generalmente anche nell’intera esistenza – sia stato ipocrita o vittima di un mondo ipocrita, quanto l’apparenza abbia trionfato ancora e anche in momenti di pieno sconforto.
Ha raccontato la superficialità che c’è alla base di qualsiasi evento: basta pensare allo youtuber Duke Goolies (interpretato dalla star di Stranger Things, Joe Keery) che – durante un’intervista – racconta di come avesse scoperto il suo lato solidale nei confronti delle persone di colore, e di come abbia avuto bisogno di farlo sapere al mondo dato che questo suo aspetto interiore lo conosceva solo lui. Tutto viene raccontato per poi essere paragonato ai numeri di visualizzazioni del video, dei like, delle interazioni. Il canale youtube era pieno di messaggi che tendavano solo a sfruttare drammi reali per avere qualcosa in cambio, per sembrare intelligenti, meritevoli di essere seguiti. Questo concetto viene anticipato con la frase di Dash Bracket, un reporter del New Yorkerly News (interpretato da Samuel L. Jackson):
” Non fraintendetemi. Io odio a morte il virus, ma almeno lui non finge di volerti aiutare.”
Ogni cosa in Death To 2020 è un pugno nello stomaco e ci costringe a venire a patti con una bugia che spesso durante quest’ultimo periodo ci siamo raccontati: ne usciremo migliori. Il documentario non ha cercato di far vedere i miglioramenti personali di fronte a un fattore che ci ha uniti tutti nella stessa situazione, anzi. Ha cercato – in maniera velata e intelligente – di mostrare come l’animo umano, non importa in quale situazione, riesca sempre a essere uguale. Un complottista – come vedremo nell’intervista delle nagazionista Kathy Flowers (interpretata da Cristin Milioti) – rimarrà sempre tale e vedrà complotti anche quando le cose saranno tangibili: la vittoria di Biden contro Trump ad esempio. La donna riuscirà a negare anche questa. In questo modo, Death To 2020 mostrerà quanto un individuo spesso sia solo frutto di concetti archiviati nella propria testa, e di quanto, nonostante tutto, decida sempre di vedere quello che vuole vedere.
Il documentario utilizza e strumentalizza il Covid-19 per provocare il telespettatore, e ci riesce bene.
Per questo motivo non ci saranno mai momenti toccanti o solidali, nessuna musica triste o un messaggio di speranza. Il contrasto, tra la parte iniziale e quella finale, vive – proprio come nella realtà – nell’arrivo del virus e nell’arrivo del vaccino. In entrambi i casi, gli intervistati troveranno un però: il virus gli farà urlare al complotto, e poi alla voglia di uscire e relazionarsi come un tempo alle persone facendogli venire quella voglia di andare al pub e incontrare qualcuno. Ma con l’arrivo del vaccino urleranno la stessa cosa e perderanno – al tempo stesso – quella voglia di relazionarsi con le persone immaginando i rapporti che nasceranno al pub destinati al fallimento. L’umanità non è mai contenta, neanche di fronte alla salvezza di ciò che non volevano: questo è Death To 2020.
Charlie Brooker (il regista) non ha risparmiato nessuno, neanche l’iconica Regina Elisabetta che – interpretata da Tracey Ullman – parla alla nazione in maniera esuberante e sarcastica riuscendo a dare al documentario la leggerezza che pochi, di fronte al racconto, riusciranno a dare. Perché questo è un lavoro immorale che cura, scena dopo scena, la sua immoralità dipingendo la società come qualcosa che vive nelle apparenze e non accetta il cambiamento. Si inventa delle realtà nella propria testa (lo vedremo nella negazionista Kathy Flowers, convinta che tutto sia frutto della volontà di Bill Gates di controllare l’essere umano tramite il logo di una graffetta sul pc) e pretende che siano reali per riuscire a mandare avanti la propria vita e le proprie idee. Non è importante cosa accada, che catastrofe naturale o artificiale ci renderà protagonisti: tutti avremo le nostre convinzioni con noi, e forse, a volte, saranno più deleterie della catastrofe stessa.
Death To 2020 umilia i tuttologi, gli estremisti e sé stesso. Intervista chiunque possa dire qualcosa di politicamente scorretto o non basato su fatti reali. Dà la parola a tutti: cittadini medi, scienziati, storici o portavoce politici e ci fa notare quanto, nonostante tutto, siamo tutti uguali e sintetizzabili in un flusso continuo di illusioni, speranze per un futuro migliore che, però, speriamo possa sempre essere costruito da qualcun altro mentre noi semplicemente guardiamo. Nel finale viene proposto a tutti gli intervistati di leggere un copione per il prossimo documentario inerente al 2021. Le battute che anticipano l’anno raccontano di come il vaccino sia stato deleterio e di come, in realtà, il 2021 – l’anno considerato da tutti come quello del riscatto – sia stato probabilmente peggio dell’anno precedente.
Un finale che – metaforicamente – annienta tutte le nostre speranze e ci invita a smettere di concentrarci su quello che avverrà in futuro perché, di fondo, dobbiamo ancora capire e imparare quello che sta accadendo adesso.