Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul film Il Divin Codino.
Da Baggio a Roberto, nel tempo di una partita. RobertoBBaggio tutto attaccato e con due “b”, direbbe qualcuno. Col timbro di Pizzul, carico d’amore ed entusiasmo, ma anche di sogni infranti per ventiquattro interminabili anni. Baggio, Roberto. Per distinguerlo dall’altro Baggio, Dino. Perché Totti è Totti, Del Piero è Del Piero ma Baggio non è mai solo Baggio: s’accompagna sempre al nome. Roberto Baggio, alla ricerca di una musicalità vicina a quella di una filastrocca popolare. Un racconto da tramandare a figli e nipoti. La favola del bambino che parte dal paesello e arriva a sfiorare la coppa a cui pensi fin da quando i pensieri sono solo dei lampi. Ma anche la fiaba della disillusione, quando la scena madre è un rigore che viaggia ancora oggi nello spazio inesplorato. Roberto Baggio, quindi. Anzi no, Roby. Lui sì, il vero protagonista del film Il Divin Codino.
Ci ha provato Letizia Lamartire, regista del lungometraggio disponibile dal 26 maggio 2021 su Netflix. E con lei il protagonista Andrea Arcangeli, convincente al punto da aver sovrapposto in più momenti la finzione con la realtà. Ci hanno provato con una pellicola coraggiosa e un cast d’alto livello, riuscendoci solo in parte. Spogliando l’uomo dal mito per restituirci l’anima di Roby, il bambino di Caldogno. Del campione e di una carriera unica e irripetibile non resta niente, se non i frammenti in tre atti di un destino scritto fin dal primo tiro in porta. Non una messa laica intrisa di sterile retorica, ma il dramma sportivo di un uomo prigioniero di una profezia. Non le maglie, ma un’unica seconda pelle: l’azzurro. Perché il Divin Codino non è mai stato della Juventus, del Milan o dell’Inter: è stato di tutti noi. L’icona italica del dieci, ben al di là del tifo. L’uomo del popolo, mai populista.
Da questo punto di vista, il film centra perfettamente l’obiettivo, immergendoci idealmente nel buco nero che inghiottisce la disfatta di Pasadena. Roberto Baggio, in fondo, non ha mai smesso di giocare: è in campo ancora oggi, a distanza di 27 anni da quella maledetta estate americana, e continua a tirare e tirare ancora quel rigore. Sempre alto, oltre la traversa. Schiacciato dalla pressione insostenibile del paradosso di una storia scritta e da scrivere, verso le stelle che gli hanno negato uno spazio nell’Olimpo dei vincenti. Ma non in quello degli eterni, dove Baggio ha un posto che la storia, tutta sua, gli riserverà per sempre. Ieri come oggi e domani, in un tempo annichilito in cui il l’assolato 17 luglio del 1994 si muove immutato tra le pieghe degli anni.
Il Divin Codino incalza rapido tra una vita non raccontata e una fiaba vissuta, scandita dalle tre cadute della sua carriera: l’infortunio all’alba del grande salto, a 18 anni, il rigore di Pasadena e la mancata convocazione al Mondiale del 2002, l’ultimo da lui giocabile dopo la rinascita di Brescia. Scherzi di un destino che l’ha reso grande per poi fermarlo sempre sul più bello. Ma anche i cardini che hanno portato Roberto a mettere Baggio in secondo piano, dal momento in cui non ha più giocato fino alla bucolica quotidianità di un uomo che col calcio non vuole più avere niente a che fare.
Roberto Baggio ha consegnato la sua leggenda al mondo per tenere con sé un cammino in cui il percorso finisce col diventare il fine stesso. La legge della sua vita spirituale intrapresa in giovanissima età e ancora oggi presentissima, a metà strada tra la dolcezza di un silenzio assaporato e il fragore amaro della disillusione per quello che avrebbe potuto avere e non avrà mai. Una disillusione che però gli ha permesso di avere tutto il resto. Quello che più conta, al di là delle ossessioni per una sconfitta: Baggio, oggi, è tutto nostro. Roby no.
Fin qui i pregi de Il Divin Codino, un film che strizza l’occhio alle “ultime danze” della nuova generazione di racconti sportivi e riesce a offrire una visione unica di un campione più vivibile che raccontabile nella sua totalità. Ma non sono mancati i problemi. Uno su tutti: i minuti. Quelli di sempre, novanta circa. Sufficienti per scrivere delle memorabili storie calcistiche. Ma insufficienti per reggere fino alla fine le ambizioni di un racconto che ha voluto osservare sottovoce il profilo in penombra dell’uomo. Laddove l’irriverente capacità di sottrarci dei momenti indimenticabili ci propone un puzzle da ricostruire attraverso le nostre emozioni, d’altra parte il tempo è troppo ridotto per centrare davvero l’obiettivo.
In un’epoca ormai dominata dalle serie tv e dalle docuserie, raccontare il Baggio de Il Divin Codino in un’ora e mezza scarsa diventa pressoché impossibile. E qui iniziano i rimpianti, quelli veri. Perché se è vero da una parte che il minutaggio ridotto ci immerga in una narrazione essenziale e asciutta che ordina la caotica frontiera spazio-temporale dell’eterno rigore, dall’altra i non detti finiscono con l’oscurare i detti. Ed è un peccato, perché questa stessa storia, raccontata nel medesimo modo dai medesimi interpreti, avrebbe potuto dare vita a una produzione ancora più importante. Nel tempo di un Mondiale, come minimo. Come ha fatto, con uno stile diversissimo, lo Speravo de Morì Prima incentrato sulla figura del Totti al tramonto.
Roberto Baggio l’avrebbe meritato, e sarebbe stato interessantissimo confrontare poi i sussurri del Divin Codino col chiasso caciarone del Pupone, espressioni uniche del genio calcistico nate e cresciute attraverso due personalità opposte. Dobbiamo invece “accontentarci” (per il momento) di un film piuttosto breve: un film bello, a tratti bellissimo, uno tra i migliori racconti sportivi italiani degli ultimi anni, ben lontano dalle solite sterili agiografie a cui siamo purtroppo abituati nella stragrande maggioranza dei casi, ma pur sempre un piccolo Bignami di quel che avremmo potuto vedere anche solo con una manciata di ore in più.
Il Divin Codino è il miglior modo possibile per raccontare Roberto Baggio in un’ora e mezzo, ma raccontare la sua complessità in così poco tempo è pressoché utopico. Avremmo invece bisogno di più Baggio, attraverso la scoperta di Roberto. E di tirare ancora quel rigore per altre mille volte, sperando succeda prima o poi quel che successe in un famoso spot di qualche anno fa: un gol, rocambolesco. Ma forse no, forse non lo vorremmo davvero, non dopo quello che abbiamo vissuto successivamente: un gol in quel momento ci avrebbe dato un Baggio ancora più leggendario, ma Roberto sarebbe stato un po’ meno uno di noi. Roby, più che Roberto. Eroe introverso. Eterno nella sua malinconica drammaticità. RobertoBBaggio, per sempre a un passo dal sogno.
Antonio Casu