Neflix ha scelto Mine Vaganti. Netflix ha scelto Ferzan Özpetek e non potremmo esserne più felici. Quando abbiamo visto questa nuova aggiunta al catalogo non ci siamo stupiti più di tanto, è vero: d’altronde molte sono le volte in cui la piattaforma streaming ha scelto di dar spazio a film importanti e fondamentali del cinema, ma non potevamo lasciare questo gesto nel silenzio. Avevamo bisogno di parlarne.
Questa scelta apparentemente semplice e casuale ci fa avvicinare a un mondo che a volte lasciamo chiuso in un cassetto: quello dell’introspezione. Questo film è l’introspezione.
Una trama all’apparenza molto semplice: Tommaso (Riccardo Scamarcio) abita a Roma, luogo in cui vive la propria indipendenza e una vita che alla sua famiglia non ha mai raccontato: omosessuale, studente di lettere e pronto a diventare uno scrittore. Quando decide di tornare – inizialmente per un breve periodo – a Lecce dalla sua famiglia, decide anche di smetterla di nascondersi e rivelare a tutti quanti la sua vera vita. Diverse cose gli impediranno di confessarsi costringendolo ancora per una volta a tacere e guardare le cose svilupparsi sotto i propri occhi, senza poter fare nulla in merito. Il fratello, Antonio (Alessandro Preziosi), è nella stessa situazione di Tommaso: omosessuale e mai stato troppo coraggioso nel riuscire a dirlo, decide di farlo prima che lo faccia Tommaso. Questo porterà la famiglia a ripudiarlo e a cacciarlo di casa, gesto che impedirà al fratello di fare il grande passo.
Nel frattempo, le dinamiche della famiglia vanno avanti e tra queste – nel silenzio – si sviluppa una storia antica e mai superata: quella della nonna (Ilaria Occhini). Un racconto narrato in silenzio connotato da disperazione e incanto, un amore triste e mai vissuto provato dalla donna nei confronti del cognato.
Più e più volte durante il film si susseguono due linee temporali: il presente e il passato della nonna che non vedrà mai alcun dialogo, non sentirà mai alcuna parola. Solo il silenzio disarmante di una donna giovane (Carolina Crescentini) con il proprio amante (Giorgio Marchesi) che cammina per le strade del paese, pronta a sposarsi con un altro uomo.
Özpetek in questo film sceglie di fare urlare ogni “io” di qualunque personaggio, non salva nessuno dalla propria realtà costringendoli a fare un passo indietro e ad assecondare il mondo immenso che portano dentro. L’urlo che il regista turco sceglie di fare non è un urlo plateale, anzi. Risiede nel silenzio dell’essenza di ognuno di noi e ci ricorda quanto, nonostante tutto, non possiamo in alcun modo scappare da noi stessi. Ed è proprio in questa maniera che ci porta ad affrontare il tema della verità, svelandoci qualcosa che forse a volte ci sfugge. La verità di cui parla Özpetek non è legata alla realtà che dobbiamo raccontare a chi ci sta vicino, ma la realtà che dobbiamo raccontare a noi stessi. Proprio con questo spirito Tommaso alla fine non racconterà nulla alla propria famiglia, accettando che non sempre chi ci sta accanto debba sapere tutto, che la verità è una cosa che va meritata. Non la meritavano la verità, loro. Lo hanno dimostrato, non si sono mai sottratti al loro disprezzo verso Antonio, facendo – alla fine – di questo il loro vero figlio. Non era più Antonio il loro primogenito, era il disprezzo e la vergogna.
Tommaso sceglie il silenzio e le urla interiori, sceglie la pace che maschera la vera guerra, una guerra che non meritavano.
Riuscire a meritare le guerre degli altri è più difficile di quanto si pensi e questo Özpetek lo sa bene, non fa altro che ribadircelo, urlarcelo sottovoce. Proprio come fa la nonna. Perennemente in silenzio e sempre distante da tutti quei preconcetti che abitano le teste della propria dimora, vive le sue crisi interiori dentro di se. Questo personaggio fa quasi pensare – secondo questa logica – che proprio lei sia l’alter ego del regista, e che tutta l’essenza sia proprio dentro di lei. Come se fosse lei a trainare il film. Come se ogni storia dovesse sempre confrontarsi con la sua esperienza, ritrovando in lei una dimensione. Perché la sensazione che si ha durante il film é che sia la donna la misura di tutte le cose. Con lei il film inizia e con lei il film finisce. Ma stavolta il finale lo ha deciso lei.
All’inizio del film la donna, da giovane, cammina con l’amante per le vie dalla città per raggiungere l’uomo che dovrà sposare. I suoi passi sono lenti e non sembrano contenere alcuna sicurezza, se non quella di chi sa che deve solo fare la scelta giusta senza ascoltarsi. Nel finale le cose sono ben diverse: la nonna – malata da tempo di diabete – decide di farla finita. Si trucca, si abbuffa di dolci e spegne per sempre l’interruttore della sua meravigliosa luce. Lascerà a tutti i membri della famiglia una lettera, l’ultimo fardello della sua essenza, e poi il silenzio. Mentre ascoltiamo le parole della donna assistiamo al suo funerale che si concluderà con l’intreccio delle due linee temporali: quella del passato e quella del presente. I personaggi degli anni nostri balleranno tutti insieme senza rancori, leggeri e sensibili a loro stessi. E in mezzo a loro ci sarà lei, giovane e bella come un tempo. Ancora zitta, ancora senza nulla da aggiungere, con il sorriso di chi stavolta ha fatto di testa sua lasciando questo mondo come meglio ha voluto.
La nostra essenza è una cosa fondamentale e questo Özpetek lo sa bene. Non ci ha mai lasciati vivere in pace durante quell’ora e mezza di film, come se ci avesse messo spalle al muro e senza possibilità di muoverci. Senza possibilità di raccontarci mezze verità. Non ci ha chiesto di sbraitare le nostre convinzioni, speranze e idee, ci ha chiesto di non mentirci. Ci ha dimostrato quanto la mente umana sia debole e vulnerabile. Netflix ha scelto di aggiungere al catalogo un colosso del cinema italiano e di questo non ne saremo mai grati abbastanza, perché – da questo momento in poi – quando saremo confusi e disordinati, capiremo che non c’è nulla di male a essere una mina vagante.
“La mina vagante se n’è andata. Così mi chiamavate, pensando che non vi sentissi. Ma le mine vaganti servono a portare il disordine, a prendere le cose e a metterle in posti dove nessuno voleva farcele stare, a sgominare tutto, a cambiare i piani. Nicola mi ha insegnato la cosa più importante di tutte: a sorridere quando stai male, quando dentro vorresti morire. Non siate tristi per me quando non sentite la mia voce in casa, la vita non è nelle stanze. Moriamo e poi torniamo, come tutto.“