La prima associazione mentale con “Netflix“? Cosa vi verrebbe in mente istintivamente se evocassimo la parola? “Serie tv”? Certamente. “Film“? Pure, ma un po’ meno. “Millie Bobby Brown. Sottosopra. Ma quanto è cresciuta in fretta”? Perché no.” Sottotrama teen”? Se avete visto la quarta stagione di Boris, è possibile. “Algoritmo”? Vedasi risposta precedente. “Woke”? Dipende un po’ dagli orientamenti politici. Le possibilità sono tante, ma in ogni caso una delle più frequenti sarà sempre “binge watching”. E se si pensa al binge watching, si pensa ad avere tutto e subito, senza alcun tempo d’attesa tra una puntata e l’altra. Ecco, ora ci siamo: questo è stato, è e sarà sempre il vero tratto distintivo di Netflix. Il rilascio in blocco ha fatto tutta la differenza del mondo tra la vecchia tv e il nuovo media impostato dal colosso di Los Gatos. Una differenza che ha innescato una rivoluzione riuscita solo a metà, e che a differenza delle aspettative di alcuni anni fa non ha portato a una stabilizzazione di un sistema globale uniformato sul “modello Netflix”: nessun altro, infatti, ha mai seguito fino in fondo quello che per diverso tempo è stato il competitor di riferimento. Non Disney, non Amazon, non Apple o nessun altro: qualcuno, a dir la verità, ci aveva provato per un po’ salvo poi tornare sui propri passi. Molti altri applicano il meccanismo solo con le programmazioni secondarie rispetto a quelle originali, successive rispetto alle prime visioni globali. Qualcun altro, invece, non si è mai spostato dalla trincea iniziale: il rilascio settimanale è rimasto un dogma pressoché imprescindibile in svariati casi. E si accentua sempre più nella misura in cui i vari player stanno uniformando progressivamente le programmazioni statunitensi con quelle estere (italiane incluse), arrivando a una crescente contemporaneità nelle uscite.
E ora? Ora la situazione è fluida più che mai: il mondo dello streaming sta attraversando la fase di crisi più acuta dal suo avvento, e sembra che le uniche risposte concrete per superarla stiano arrivando dal passato. Come avevamo evidenziato in un approfondimento di alcuni mesi fa, lo sguardo pare rivolto alle spalle e a una camaleontica restaurazione della tv on demand di una creatura più vicina alla televisione lineare a cui siamo stati abituati per decenni: più pubblicità, meno titoli, più contenuti generalisti. E, ovviamente, appuntamenti settimanali, per mesi. Così era, così è e così sarà, un po’ per tutti. Al massimo, la proposta potrebbe essere ibrida: Prime Video, per esempio, tende a una distribuzione settimanale a blocchi da due o più episodi, come peraltro si fa da una vita in Italia per coprire pienamente il prime time attraverso una doppia copertura. E Netflix? Si arrenderà a sua volta, certificando il fallimento di una strategia che ne aveva fatto le fortune al punto da esser sembrato a lungo un passaggio obbligatorio per tutti gli altri? O è addirittura già passata alla nuova fase “silenziosamente”, senza che ce ne rendessimo conto? Beh, nì.
Per farla facile, la domanda è una: Netflix passerà mai al modello settimanale?
A detta dell’azienda, no. Non succederà mai. L’aveva esplicitato ufficialmente un anno fa circa, quando erano rimbalzate alcune voci in tal senso. E la risposta fu netta, categorica: “Pensiamo che il nostro modello di rilascio, “bingeable”, aiuti a portare un sostanzioso engagement, specialmente per i nuovi titoli. Questo permette agli spettatori di perdersi nelle serie che amano“, sosteneva Netflix in una lettera agli shareholder. “Crediamo che la possibilità da parte dei nostri membri di immergersi in una storia dall’inizio alla fine aumenti il divertimento e il piacere [di guardare] e allo stesso tempo la possibilità che lo dicano ai loro amici, che porta quindi a più spettatori che si uniscono e rimangono con Netflix”. Questione chiusa? No, affatto. Anche perché viviamo in un mondo in cui i dogmi sono tali solo finché è utile portarli avanti. Giusto per dirne una: fino a poco più di un anno fa, sembrava impensabile ritrovarsi con la pubblicità all’interno della stessa Netflix, poi è andata come è andata. In tal senso, seppure il modello di rilascio in blocco continui a rappresentare un tratto distintivo fortissimo della piattaforma, un modello ancora vincente per moltissimi versi, le evoluzioni sono più che prevedibili. E addirittura già parte del nostro presente, oltre che di un futuro ipotetico.
Pensateci un attimo: quante delle serie tv più prestigiose uscite negli ultimi due anni sono state divise in più blocchi da Netflix?
Tantissime: da Stranger Things a The Witcher, passando per Ozark, Virgin River e l’appena conclusa The Crown, molte delle produzioni più importanti sono state rilasciate attraverso modelli ibridi che prevedono un sezionamento delle stagioni in (almeno) due parti, diffuse con una distanza di poche settimane o di alcuni mesi. Così, se da un lato si salvaguarda il marchio di fabbrica, dall’altra si beneficia dei vantaggi di un sistema che non a caso è tenuto stretto da tutti gli altri: l’attenzione mediatica resta così alta per più tempo, garantendo maggiori possibilità di diffondersi tra il pubblico senza vincolarli alla “pressione sociale” di dover rincorrere le programmazioni imposte, le serie tv più complesse su un piano narrativo possono essere fruite con tempistiche più appropriate e si concede una scelta diversa senza creare alcun problema a chi, invece, preferisce guardarle in blocco. Basta guardarle una volta concluse, anche se questo implica la mancata partecipazione a una “visione collettiva” ed esser parte così di un trend globale. Vale per alcune, ma non vale per tutte. In un approfondimento di un anno fa, per esempio, avevamo evidenziato le criticità che avevano portato al rovinoso fallimento di una serie tv su cui Netflix aveva puntato tantissimo, 1899: come sarebbe andata se fosse stata rilasciata settimanalmente, concedendosi del tempo che purtroppo non ha avuto? Non avremo mai la riprova, ma con ogni probabilità avrebbe avuto più possibilità di sopravvivere all’impietosa mannaia di Netflix, affidatasi da tempo a un sistema di valutazione impostato sulla “miseria” di otto settimane. Inefficace di stabilire nel miglior modo il potenziale in prospettiva di una serie “d’autore”, complessa, poco immediata e oltretutto penalizzata dalla programmazione quasi contemporanea di una produzione molto più generalista come Mercoledì.
Dove si va da qui, allora? Netflix si fermerà al sezionamento in blocchi da due parti per alcune serie tv, mantenendo invariato il rilascio stagionale unico per le altre? A quanto pare, no: pur tenendo da parte una percentuale minoritaria di produzioni distribuite sulla piattaforma ma prodotta da altre, spessissimo vincolate a una programmazione settimanale (si pensi a Better Call Saul, rilasciata in Italia da Netflix ma di proprietà della AMC), qualcosa si muove anche a proposito dei titoli originali della piattaforma. Anche in questo senso, evochiamo uno dei titoli in trend nei mesi scorsi: Squid Game – La Sfida. La trasmissione, infatti, è stata rilasciata in addirittura tre blocchi, distribuiti nell’arco di tre settimane. È una novità? Non assoluta: Netflix, infatti, tende ad applicare un modello di distribuzione differente per i reality, più volte rilasciati settimanalmente, ma Squid Game – La Sfida è obiettivamente un caso differente, più associabile alla sfera delle serie tv “classiche” che di quella classica dei reality. E il pubblico sembra aver risposto positivamente: al di là delle fisiologiche critiche, Squid Game ha incontrato l’interesse degli utenti ed è già stata rinnovata per una seconda stagione. Tutto ciò in tempi rapidissimi, alla faccia del cinismo di una mannaia che ultimamente è stata affilata ancora di più.
Netflix, dal canto suo, non potrà non tenere in considerazione tutto ciò: si è parlato del reality per oltre un mese e mezzo, mentre se ne sarebbe parlato per molto meno tempo se fosse stata rilasciata con un unico blocco. E ha avuto il tempo per crescere, diffondersi e diventare a suo modo grande entro un arco più esteso ma comunque abbastanza limitato. In quest’ottica, specie se si pensa al fatto che nei prossimi anni diminuirà notevolmente il numero di titoli mensilmente proposti e si dovrà di conseguenza valorizzare ancora meglio i nuovi prodotti, sembrerebbe persino controproducente portare avanti un integralismo avversante nei confronti di un ritorno al futuro in cui Netflix assomiglierà sempre più a un vecchio media. A una televisione buttata in soffitta con troppa fretta, per dirla tutta. In poche parole: non solo Netflix avrà da guadagnare da una progressiva “settimanalizzazione” della sua offerta, ma non potrà addirittura farne più a meno. Sembra assurdo pensarlo, visto che è nata e diventata grande andando nella direzione opposta, ma ogni tempo ha i propri profeti. E questa è la fase storica in cui si è capito che il mondo dello streaming ha spiegato le ali avvicinandosi troppo al sole, fino a bruciarsi. L’incendio, però, sembra non rappresentare ancora un punto di non ritorno: sarà sufficiente guardarsi le spalle, per una volta. Fare di meno, farlo meglio. Farlo coi giusti tempi e arrendersi all’evidenza: trincerarsi in una torre d’avorio, convinti che siano tutti gli altri a guidare contromano, non potrebbe non portare a un allargamento della crisi che diverrebbe a quel punto insanabile.
Antonio Casu