L’universo Netflix è vasto e smisurato: ogni giorno nuove Serie Tv si aggiungono al firmamento. E non sempre si tratta di lavori recenti o produzioni originali. In alcuni casi dal buco nero dell’oblio sono ripescati prodotti di nicchia passati inosservati negli anni dopo la messa in onda. Vuoi per una pessima pubblicità, vuoi per il periodo poco propizio, queste Serie Tv finiscono nel dimenticatoio. Finché, frullate nel calderone Netflix, non riemergono improvvisamente. Serve forse la mano del filologo o dell’antiquario per effettuare una valida cernita in tutta questa varietà. O molta fortuna.
È stata la seconda a guidarmi alla scoperta di The Booth at the End. Il tutto attraverso una concatenazione di eventi simile a quella che ti porta a scovare un piccolo capolavoro musicale grazie ai suggerimenti Youtube. Da questo punto di vista Netflix avrebbe molto da imparare dal noto sito di video sharing, ma per una volta con un pizzico di casualità – che sempre regola volenti o nolenti le nostre vite – la scelta è stata propizia.
La sinossi di The Booth at the End non si presenta nel modo migliore: un misterioso uomo capace di far avverare i desideri dei suoi clienti. Andiamo oltre le apparenze però, perché di fantasy in questa Serie non c’è proprio nulla.
Vi aspettereste effetti speciali, giochi di luce, misteriosi intrighi. Non troverete nulla di tutto ciò.
Troverete un uomo seduto nel bancone di fondo di una tavola calda americana, avvicinato di volta in volta da persone diverse. Un’unica ambientazione. Poche e scarne – ma quanto mai significative! – inquadrature. Dialoghi. Tutto ruota attorno a questi dialoghi, alla brulicante umanità che si succede sul palco. Dieci personaggi in totale, altrettanti desideri. In aggiunta solo Doris, la cameriera del locale e The Man, l’uomo seduto che dà, appunto, la possibilità a ognuno di realizzare ciò che più intimamente brama.
Tutto ha un prezzo però. Riecheggiando il mefistofelico patto del Faust di Goethe, The Man chiede che tutti i suoi clienti compiano prima qualcosa. La difficoltà dell’incarico è proporzionata al desiderio. Non c’è possibilità di negoziare e di rivedere l’accordo. Ma nessuno è obbligato a mettere in pratica quanto prescritto.
Rispetto al Mefistofele di Goethe però, The Man non forza mai la mano. In lui non c’è il desiderio di guadagnare dalla sua un’anima. Niente di tutto questo. La scelta che lascia è sempre piena e assoluta. E qua e là traspare quasi il suo sguardo benevolo nei confronti dell’umanità.
Più che un diavolo appare un Faust anche lui. Un individuo che ha stretto un patto con il nichilismo diabolico di chi non crede più all’uomo e alla sua possibilità di redenzione. Il suo è lo sguardo attento e curioso di chi indaga nel cuore delle persone, di chi vuole carpirne i segreti, le aspirazioni e le paure più intime. Di chi, in fondo, spera che un riscatto sia ancora attuabile. Un termine del patto, infatti, è quello che costringe i contraenti a rispondere a tutte le domande di The Man. Descrivendo nel dettaglio le loro azioni ma soprattutto i pensieri che li animano ognuno viene messo di fronte a se stesso e all’orrore delle proprie scelte.
The Man appunta tutto diligentemente sul suo “libro nero”. Non tralascia nulla. Interroga, approfondisce, controbatte in maniera sibillina. Non offre consigli, non indica la via, non esprime la sua morale. Non vuole influenzare le decisioni e i ragionamenti che vi stanno dietro. Vuole solo comprenderli.
C’è il frivolo desiderio di bellezza (Jenny e Willem), l’amore per un figlio (James), per un marito (Mrs. Tyler) o per un padre (Melody), la voglia di “sentire Dio” (Sorella Carmen) a muovere i protagonisti. Tutti sono costretti a fare una scelta. Essa può comportare un’azione malvagia o meno. Ma in tutti i casi è sempre una scelta difficile, impegnativa, che coinvolge la morale di ognuno.
La grandezza di The Booth at the End è tutta qui. Nella semplicità di mettere in scena l’uomo con i suoi dubbi morali e le scelte che è chiamato a compiere. C’è un’idea di causalità in tutto questo: a ogni azione corrisponde una reazione. Per ottenere qualcosa, bisogna fare qualcos’altro. C’è la complessità della vita, la redenzione, la perdizione e la costante, bellissima immagine di un uomo che vive. Che desidera, in fondo, soltanto l’amore.
Dove può portarlo però il suo desiderio di felicità? Può arrivare a compiere una strage? A rapinare una banca? A uccidere una bambina innocente? È di fronte a queste scelte che The Booth at the End fonda il suo credo. Non c’è nulla di miracoloso, tutto sembra originarsi naturalmente, prodotto di azioni apparentemente casuali.
La prima stagione consta di appena cinque episodi da poco più di venti minuti ciascuno. Eppure dall’essenzialità della scenografia e dal minimalismo della trama scaturisce una Serie Tv gioiello. Xander Berkeley (24, The Mentalist, The Walking Dead) nel suo ruolo di The Man vale da solo la visione. Un’interpretazione sopraffina, insieme misurata e affascinante. Le sue espressioni, i suoi sguardi, le sottili esitazioni della voce. Tutto in lui ha la capacità di generare un’attrazione senza confronti. Ci sorprendiamo a incantarci nei suoi primi piani, mai banali, mai diretti.
C’è sempre come un velo a nasconderlo parzialmente dalla nostra vista. C’è il mistero di un uomo di cui non sappiamo nulla. L’azione si condensa per buona parte della prima stagione sulla grandezza scenica che Berkeley mette in atto. Non ci si accorge neppure del tempo che passa mentre sul suo volto si disegnano le più varie espressioni. L’aura quasi mistica che promana ha un magnetismo raro.
E il merito di The Booth at The End sta nel rendere così carismatico il suo protagonista fin dal primo istante, riuscendo a oltrepassare il vincolo temporale di una puntata che per durata è inferiore perfino a quella di una sit-com.
Cento minuti per cinque episodi: cento minuti e usciamo dalla visione con l’innaturale soddisfazione di esserci trovati di fronte a una Serie Tv completa. Piena. Significativa. Nel mezzo le mille vicende umane: tutte solo immaginate, solo evocate dal racconto del protagonista di turno. C’è il caos, il disordine di una realtà complessa, che segue regole a sé stanti, incomprensibili eppure in qualche modo scardinabili. Storie che si incrociano, prospettive che si sovrappongono, drammi solo riecheggiati.
C’è tutto questo nei cento minuti della prima stagione di The Booth at the End ma soprattutto c’è il gusto di una visione mai banale. La curiosità che non ti lascia un solo istante, la voglia di ascoltare ogni storia, ogni pensiero. Si diventa tutti The Man con quello sguardo un po’ da psicologo, da ascoltatore interessato dei piccoli drammi e delle grandi tragedie umane.
Apprestiamoci alla visione di The Booth at the End con leggerezza e senza aspettative e non ne resteremo delusi. Per chi predilige la forza di una scena scarna sulla scia di Aspettando Godot, di dialoghi fitti, di introspezione, questa è la Serie Tv che fa per lui.
Un piccolo gioiello analogo al già recensito Midnight Diner: Tokyo Stories, passato sotto traccia in Italia ma di impatto enorme nell’intero Oriente seriale. Anche in quel caso tutto si condensava in una tavola calda – giapponese però – e sulla sovrapposizione delle mille vicende di vita vissuta da parte dei clienti del locale. Uno scorcio vivido sul multiforme Oriente (sarebbe meglio parlare di Orienti, al plurale) in cui tutta l’attenzione si concentra sull’uomo e sui suoi pensieri.