The Social Dilemma è stato sicuramente uno degli eventi televisivi più chiacchierati dell’anno. Presentato in anteprima al Sundance Festival già a gennaio 2020, è stato reso disponibile da Netflix sulla stessa piattaforma il 9 settembre. E inevitabilmente ha portato con sé un gran numero di discussioni e riflessioni. Se n’è parlato tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, aree geografiche che risultano oltretutto al centro delle implicazioni socio-politiche affrontate da The Social Dilemma.
E la giostra di commenti che hanno popolato il web a seguito del suo rilascio ha portato a galla un evidente turbamento.
In molti si sono detti piuttosto scioccati, evidentemente scossi da quanto mostrato nel documentario. E questo nonostante The Social Dilemma non rappresenti esattamente una novità assoluta in termini di “notizia”. Lo stesso The Great Hack, documentario disponibile su Netflix da quasi due anni, aveva spianato già la strada percorsa poi da The Social Dilemma nel 2020.
E a ogni modo, chiunque sia mediamente informato in merito all’attualità, non resta esattamente sorpreso da quanto raccontato da questi documentari. È ormai risaputo di quanto spesso i CEO dei giganti del Tech siano chiamati al Congresso Americano per rispondere in merito al mastodontico potere di cui godono. Al tempo stesso a chiunque suonerà familiare il nome di Cambridge Analytica. E sarà consapevole delle polemiche in merito al controllo dei dati esercitato da Facebook e da altri social media.
Eppure The Social Dilemma è comunque in grado di provocare nello spettatore una certa inquietudine, mista per lo più a un grumo di paura e sfiducia nell’umanità.
Su di me ha avuto lo stesso effetto di un pugno allo stomaco assestato da un “Karate Kid” con una pessima mira. E lo ha fatto nonostante il 90% di quanto detto mi risultasse tutt’altro che nuovo. Forse perché a differenza di uno statico documentario trovato a caso sul web, il docudrama di Netflix riesce a racchiudere in una misurata ora e mezza un gran numero di informazioni e testimonianze dal tocco simile a quello di un petardo che ti esplode sulla mano. Ecco, The Social Dilemma consiste in una decina di petardi che ti esplodono sulle mani nel giro di mezz’ora.
La regia di Jeff Orlowski fa il resto. Crea un contesto che abbraccia lo spettatore per accompagnarlo con maestria all’interno di un racconto in cui finzione scenica e testimonianze reali si intersecano perfettamente. Man mano che i soggetti intervistati si alternano tra loro nel racconto delle loro esperienze lavorative presso i giganti del tech, la narrazione di background ci introduce nelle vite di esseri umani fittizi. Una famiglia comune. Dei ragazzi comuni. Che rappresentano esattamente te, proprio te che stai guardando.
E osservandoti dall’esterno hai modo di guardarti come quello che l’ego di una società viziata e opulenta come la nostra non immaginerebbe mai di essere. O di poter diventare. Ovvero una marionetta.
Persino tu, che ti senti al di sopra delle risapute manipolazioni dell’industria tech, sei costretto a ricrederti. A metterti al pari di chi hai sempre considerato un’inconsapevole marionetta del sistema, priva di spirito critico e capacità di riflessione. Perché improvvisamente ti rendi conto di essere – in parte o in toto – esattamente così. Solo che non lo sapevi. O peggio ancora lo negavi. E così non sei altro che parte di quella società assopita in una normalità che di “normale” non ha nulla.
Intrappolato quasi inconsapevolmente nella gabbia invisibile di cui i protagonisti di The Social Dilemma parlano.
Improvvisamente i fili tirati da quella trentina di ingegneri informatici della Silicon Valley di cui parla Tristan Harris nel documentario, li senti addosso. E la sensazione è quasi quella di una violenza, attraverso cui qualcuno o qualcosa dai contorni lontani e indefiniti si impossessa della tua mente e della tua pelle sotto il tuo stesso naso. E per giunta col tuo consenso. Dunque a quella sensazione di intima violenza se ne aggiunge una riconducile pressoché alla vergogna: la vergogna di essere complice consapevole di questo processo. Tanto colpevole di questo quanto dell’incapacità di liberarsene.
Perché il dilemma dei social è proprio questo: come facciamo a liberarci di una realtà che ormai si è così profondamente radicata nella nostra quotidianità?
Una realtà tanto ambigua e insidiosa da infilarsi nella nostra vita con le sembianze di Lucifero, che nel nome porta la luce mentre di nascosto mina le nostre basi, le certezze e le difese con cui l’essere umano si inserisce in una società. Perché come sottolineato dagli intervistati, il cervello umano non è programmato per reggere senza conseguenze i colpi di un costante macrodosaggio di accettazione sociale. E non è programmato per sostenere con le sue naturali difese una battaglia contro algoritmi che diventano sempre più intelligenti, sempre più veloci e sempre più insidiosi.
Vien da sé comprendere che si tratti di una battaglia ad armi impari, in cui l’utente medio soccombe ai ganci sferrati da un sistemico programma di persuasione psicologica. Quella che ha reso i giganti del tech dei macrosistemi di spietata monetizzazione in cui l’incremento del profitto è tutto ciò che conta. E l’essere umano non è altro un semplice prodotto. Un burattino nelle mani di un’intelligenza artificiale che manovra ognuno di noi senza assumere le mastodontiche sembianze di Arnold Schwarzenegger.
Quasi tre miliardi di piccoli Truman Show, fondamentalmente affezionati alle loro catene come George Orwell aveva previsto. Ma sempre più schizzati nella direzione alta del grafico che mette in relazione “epoca tecnologica” e diffusione di depressione e suicidi.
Insomma una società in cui si naviga allegri e felici tra video suggeriti e interazioni social ma su un filo di rasoio pericolosamente vicino a un precipizio. Al di là del bordo: calo dell’autostima, percezione distorta della realtà, capacità relazionali e interpersonali sempre più consumate. E una capacità critica sempre più scarsa. E la cosa tragicomica è che questo cesto di buone novelle non rappresenti nemmeno la parte peggiore del problema.
The Social Dilemma mostra perfettamente l’escalation di una realtà dominata dai Social Media. Quella che da problematiche di natura etica come la raccolta e la vendita di dati e la previsione delle azioni degli utenti, porta alla ben più grave implicazione di un massivo condizionamento dell’opinione pubblica su scala mondiale. Una dinamica che – come si può ben immaginare – implica un’influenza a livello politico e sociale degli utenti, ovvero persone. Anche detti elettori. Decisivi per la vittoria dei vari candidati durante le elezioni. E decisivi dunque nella determinazione dei nuovi contorni sociali voluti dalle diverse forze politiche.
È a questo punto che The Social Dilemma affronta argomenti delicatissimi come il presunto attacco alle democrazie occidentali. L’ondata di populismo che proprio nell’era social ha investito gran parte di questo mondo. E la polarizzazione creatasi nella società a in merito alle preferenze politiche.
Un climax ascendente in cui il timore di una non troppo lontana guerra civile – suggerita da uno degli intervistati – non sembra poi così assurdo.
The Social Dilemma non è dunque un’esperienza mai vista prima per chi è abituato a informarsi. Ma è una bomba pressurizzata di informazioni sparate in faccia una dopo l’altra per far sentire ognuno come uno dei senatori americani ripresi nel documentario: terrorizzato. Terribilmente spaventato da quanto ci aspetta se dei provvedimenti non venissero messi in atto il prima possibile.
Quali provvedimenti? Gli svariati esperti di psicologia e tecnologia intervistati nel docudrama suggeriscono più di una soluzione. Dal piccolo passo quotidiano che ogni utente può mettere in pratica ai provvedimenti più incisivi da implementare a livello politico e sociale. È un lavoro ampio, ma chiaramente sempre più necessario. E iniziare con una buona riflessione non è mai inutile.