Non siamo più vivi è il nuovo k-drama distribuito su Netflix lo scorso 28 gennaio che ci dimostra come i prodotti sudcoreani abbiano raggiunto ormai una consapevolezza di livello internazionale. In realtà la recente fama di questo tipo di produzioni è soltanto la punta dell’iceberg di una vasta gamma di serie disponibili sul web, ma va riconosciuto che grazie ai vari Squid Game, Hellbound, Dr. Brain e via discorrendo, questo fenomeno è ormai diventato parte integrante dell’offerta mainstream italiana e non solo. Non siamo più vivi, trasposizione del webtoon Naver Now at Our School, di Joo Dong-geun (titolo originale: Jigeum uri hakgyoneun letteralmente appunto “Ora, la nostra scuola…”) è una serie che utilizza abilmente uno dei più classici espedienti cinematografici dell’era moderna: un virus che trasforma la popolazione in zombie, per raccontare alcune tematiche sociali di fondo che ci hanno molto colpito.
PS: l’articolo contiene spoiler su Non siamo più vivi.
Non siamo più vivi: quanto il topo vince sul gatto
Il tema principale sul quale si basa la serie è uno dei più delicati della società moderna: il bullismo. Quella che ci viene descritta nella serie è una società estremamente cinica e classista (e non è una novità, viste le rappresentazioni date nelle altre serie citate nel primo paragrafo) in cui alcuni ragazzi e ragazze vengono tormentati da deplorevoli quanto spietati bulletti di quartiere, ripetutamente, senza che nessuno (la società per l’appunto) si interessi a loro. Byeong-chan, ovvero lo “scienziato pazzo” di Non siamo più vivi, è un professore di chimica e padre di un ragazzo che quotidianamente lotta per sopravvivere alle peggiori angherie dei suoi aguzzini, nell’indifferenza generale dell’apparato scolastico e non solo, tanto da spingere suo padre a realizzare un siero che ne aumenti l’aggressività per permettergli di cavarsela da solo. Tale siero poi sfocia in un virus che rappresenta il casus belli scatenante dell’epidemia. Ma fermiamoci un secondo a riflettere. Oltre al fatto che si tratta di un espediente narrativo molto interessante e non così scontato come in molti casi di film/serie sugli zombie, durante tutta la prima stagione si intervallano scene in cui l’autore del disastro, il professor Byeong-chan, spiega di fronte alla telecamera del suo computer i motivi del suo gesto e i vari tentativi fatti per trovare una soluzione. Si assiste ad una triste espiazione di peccati che vede protagonista un uomo completamente distrutto, che si è sentito abbandonato dalla società nell’atto di proteggere ciò che di più caro avesse al mondo: suo figlio.
E se è ovvio che il gioco non è assolutamente valso la candela, piano piano, complice anche la familiarizzazione con il tema del bullismo durante la serie, si finisce quasi per empatizzare e comprendere le scelte di quest’uomo, che di certo non ha mai avuto in mente di causare tutto quel male, ma che ne ha provate di ogni per salvare il suo ragazzo da un triste destino. Ciò che fa riflettere sta anche nel modus operandi del governo sudcoreano, il quale di fronte alla concreta possibilità di una verosimile apocalisse zombie, decide di bombardare a tappeto le aree infette preferendo sacrificare le vite di innumerevoli ipotetici sopravvissuti, pur di salvare quelle del resto della popolazione. In un certo senso il governo è la proiezione ingigantita del discutibile sistema scolastico del liceo di Hyosan, vero epicentro epidemico, colpevole di non tutelare gli interessi dei propri studenti vittime di bullismo. Così come la scuola passa metaforicamente sopra i cadaveri dei poveri studenti, altrettanto fa il governo, a più riprese, con la possibilità di salvare degli audaci ed indifesi sopravvissuti, rappresentati dai protagonisti della serie, che prima vengono abbandonati sul tetto della scuola per paura della propagazione di una variante asintomatica del virus, e poi lasciati al loro destino, senza alcuna autentica colpa. Questa doppia presa di posizione della classe governativa è una forte critica sociale che rappresenta la reale entità denunciante di Non siamo più vivi.
Non siamo più vivi: forse questo non è un mondo per giovani
Per quanto i protagonisti della serie siano dipinti con i più classici stereotipi sui liceali di tutto il mondo, aspetto che comunque fa capire quanto la tematica del bullismo si rivolga ad una società ben più ampia di quella circoscritta alla sola Corea del Sud, la caratterizzazione dei loro personaggi riesce tranquillamente a coinvolgerci. Di loro in realtà non sappiamo molto, li conosciamo in medias res, senza chissà che tipo di analisi sulle loro vite (magari qualche flashback avrebbe aiutato ad empatizzare meglio), non tutti sono vittime di bullismo, e questo è un bene per non estremizzare troppo il concetto base e portarlo allo sfinimento, ma si tratta di bravi ragazzi che in modo rocambolesco cercano di sopravvivere alla catastrofe in atto. Durante la narrazione ci si rende sempre più conto che l’obiettivo degli autori è quello di allontanare gli studenti dal mondo degli adulti e di conferire loro il ruolo dei “buoni” in una società imperfetta, mettendo invece in cattiva luce i grandi, come il preside, i militari, la classe politica e così via, fatta eccezione per alcuni personaggi chiave, come la professoressa che si sacrifica per tentare di salvare la sua alunna, o il padre di On-jo, il pompiere Rambo che fa letteralmente di tutto pur di andare a cercare la sua bambina.
In ogni caso, ciò che vige è una forte contrapposizione tra la psicologia dei più giovani, interessati a salvarsi (ma a farlo tutti insieme) e quella dei più grandi che non badano a risparmiare nessuno pur di risolvere la situazione di crisi. Certo, a loro discolpa bisognerebbe interrogarsi su chi avrebbe fatto altrimenti in una situazione simile, ma non è questo il punto. Tutta una serie di elementi portano a capire come dietro a Non siamo più vivi, ci sia una grossa denuncia da parte di una gioventù che si sente oppressa dal sempre più frequente mostro del bullismo e soprattutto abbandonata della società che dovrebbe invece farne le veci.