Dopo aver letto Olive Kitteridge, il romanzo premio Pulitzer scritto da Elizabeth Stout, ho avuto abbastanza paura quando è stata annunciata una serie tv omonima, tratta dall’opera cartacea. Non è mai facile essere all’altezza dei libri, soprattutto quando di mezzo ci sono temi considerevoli e non trascurabili come depressione e lutto. HBO a volte, però, sembra non sbagliare un colpo e anche con la miniserie Olive Kitteridge ha fatto centro.In soli quattro episodi.
La storia segue le vicende di Olive, un’insegnante di matematica che vive nella cittadina balneare di Crosby, nel Maine. La donna è sposata con Henry, un ottimo farmacista, padre premuroso e marito affidabile. La serie inizia, con una scelta azzeccata e priva di retorica, partendo dalla fine. Le prime inquadrature seguono, infatti, Olive che avanza a passo lento sull’erba ormai povera dell’autunno. La donna sembra avere un’anima spoglia come gli alberi della stagione presente. Le sue mani, segnate dallo scorrere del tempo, accendono una radio vecchia e logora, come i tormenti che ella si porta sulle stanche spalle. Olive ha con sè una pistola avvolta in un panno e un biglietto dove si leggono quattro parole smorzate dal peso della vita. “ A tutti gli interessati”. Olive alza lo sguardo verso il cielo caldo e azzurro con la speranza di trovare risposte e risorse. Una pallottola nel tamburo e tutto intorno tace. Si sarà tolta la vita?
Se l’ipotesi del suicidio porta lo spettatore ad interrogarsi sul prosieguo della storia, la serie come in uno scherzo tra amici, fa tutto il contrario e affida gli episodi a flashback e pensieri passati. Olive ha venticinque anni in meno e odia i biglietti d’amore scritti da suo marito. Insegna matematica alla scuole medie del paese e crede che l’unico potere destinato agli uomini sia la fame di sapere. È una donna soffocata dal sarcasmo e dal cinismo, incapace di essere, almeno apparentemente, sensibile verso gli altri. Ella ragiona secondo le logiche della matematica e rifugge l’ignoranza. Come spesso dichiara all’interno della serie, i mediocri abbondano nel mondo e non riescono a ‘capire i sotto testi’, le varie sfumature della vita. Olive è una donna forte, caustica, mordace che impone al figlio un’educazione ferrea e concreta.
Olive Kitteridge avvicina la trasposizione seriale al cinema d’autore, si prende i suoi spazi e i suoi ritmi senza strafare, ma argomentando ogni gesto, ogni sfaccettatura. Nel corso dei venticinque anni la protagonista dovrà fare i conti con i lutti, il tempo che passa come un treno ad alta velocità e una malattia atroce, che fa della vita una fucina di dolori. È la depressione, è il volto del buio e dei suoi immancabili silenzi. È il burrascoso vortice che ti rende inerme, cieco e senza volontà. Ma Olive sa di essere depressa. Sa che la sua intelligenza va di pari passo con la malattia.
L’intelligenza è perdonarsi e accettare la vita che ci è stata concessa senza inganni o illusioni.
Ma l’accettazione non cura i malati e Olive sa anche questo. Attraverso una narrazione sobria, compassata e lucida, lo spettatore farà conoscenza anche di Henry, marito di Olive. Harry ha una farmacia ed è particolarmente attento a soddisfare qualsiasi persona. Henry è completamente diverso da sua moglie: nei gesti, nelle parole e nel carattere. Henry è noto a tutta la comunità per la sua gentilezza e disponibilità, dimostrandosi il perfetto contraltare rispetto alla moglie Olive. Nel corso del loro matrimonio, si invaghirà di Denise, giovane e strampalata commessa della sua farmacia. L’opera procede mostrandoci questo rapporto vivo solo per inerzia e le differenze intramontabili dei coniugi attraverso antiche dinamiche, l’incomunicabilità stratificata negli anni e cristallizzata dall’orgoglio e il peso di essere distanti. Da cornice e collante, in ogni episodio ci sarà una pianista che suona all’interno di un locale. Come in una carezzevole metafora, la pianista è il tempo che corre senza voltarsi, la malinconia che rompe i veli del presente.
Un elemento che accomuna tutti i protagonisti, tra cui Christopher, il figlio della coppia, è il senso di fallimento. Tutti i personaggi sono schiavi della solitudine e della rassegnazione. Anche Cristopher. Il ragazzo, che vedremo diventare un uomo, ha un rapporto complesso con sua madre. Se nel primo episodio lo schiaffo ricevuto dopo una frase negativa sembrava esagerato, nel secondo, la madre, cercherà addirittura di sabotare il matrimonio rovinandone il banchetto. È un atteggiamento comune a tutti quelli che non si sentono appagati e Olive non lo è. Olive è chiusa in una bolla di vetro dove non ci sono vie d’uscita. A questo proposito ricordiamo un’altra scena del secondo episodio. Dopo aver terrorizzato una bambina, Olive si chiude in una stanza. Sarà la stessa bambina a ‘salvarla’, aprendo la porta della camera dove ella riposava. L’apertura della porta sembra un invito all’apertura mentale, all’amore, alla fuga evasiva dalla malattia.
In Olive Kitteridge amore e dolore si bilanciano, si ricercano senza afferrarsi mai. La serie incalza e ci regala anche sprazzi di dolcezza, ironia e meraviglia. È il manifesto della caducità umana, delle debolezze interiori e delle promesse fatte a noi stessi. I personaggi cercano di affermare la propria esistenza combattendo il senso di abbandono e di solitudine. Henry e Olive continueranno ad amarsi e ad odiarsi per tutta la vita. Forse è proprio dall’odio che nasce l’amore tra i protagonisti.
Olive Kitteridge è questo: un ponte con il passato, un rifugio lontano, un’occasione sfumata.
Perché sei piena d’odio?
Perché sei troppo semplice per me, Henry
Troppo semplice per una professoressa di matematica risolutrice di problemi e mancanze. Troppo semplice per una donna complessa e a fari spenti e per una donna che non riesce a rapportarsi con gli altri. Henry avrà anche un ictus, ma sopravvive restando, però, in uno stato catatonico. Ma sarà proprio ad Henry che Olive chiamerà quando ci sarà da raccontarsi, da confidarsi, anche se dall’altra parte del telefono c’è un uomo a metà tra la vita e la morte, caratterizzato dalla perdita dell’iniziativa motoria. Quasi come se l’unica persona che la possa capire sia suo marito. Nonostante gli screzi e i litigi. Nonostante tutto. E la loro relazione finisce come è iniziata: quando Henry morirà, Olive sembrerà svuotata e liberata da un peso, dal senso di colpa per le sorti del marito.
La storia di Olive sembra essere quella di una donna che non è in grado di procurare piacere, nè agli altri nè a se stessa. Ma se la parabola del suicidio e le domande conseguenti ci hanno intrappolato a lungo, la risposta di Olive Kitteridge è sorprendente. In un contesto dove tutti muoiono, sia fisicamente che moralmente, l’unica a sopravvivere è proprio la protagonista.
L’opera si chiude con una paradossale divergenza rispetto al quadro iniziale. Non sembra più autunno. Il mondo sembra assaporare la quiete e l’assoluta tenerezza che spetta a chi ha vinto la morte. Olive incontra un uomo alla deriva e gli parla come se lo conoscesse da una vita. I due si sdraiano l’uno accanto all’altra e ragionano sul senso della vita. Jack, l’uomo vicino a Olive, racconta alla donna di aver tradito sua moglie e di non parlare con sua figlia da almeno due anni. Le due storie sembrano uguali, come se la vita avesse progettato un finale comune per entrambi. Il finale comune sorge dalla consapevolezza. La consapevolezza assoluta che non puoi essere altro di ciò che sei.
Questo mondo mi confonde. Ma non mi va di lasciarlo.
Si chiude così Olive Kitteridge. Un’opera maestosa e sublime che lascia il segno in soli quattro episodi. Olive ha vinto. Ha vinto le sue paure e i suoi drammi. Olive è attaccata alla vita più che mai. La sua vita comincia adesso.