Nel vasto assortimento di adattamenti live action possibili, ci sono due categorie che rappresentano un po’ il tallone d’Achille della serialità: i videogiochi e gli anime, come appunto One Piece. Entrambe le forme di intrattenimento, infatti, vista la loro natura molto singolare sono davvero complicate da adattare in un formato completamente diverso sia nella forma che nel contenuto, come una serie tv. Quando si tratta di romanzi o racconti, il discorso è molto diverso vista la natura abbastanza simile, e quindi più agevole, nel passaggio dalla carta stampata alla pellicola. Ma un videogioco, per esempio, richiede una partecipazione attiva costante, diversa da quella passiva, almeno fisicamente, del libro. In un videogioco, si è chiamati ad agire costantemente, a prendere delle decisioni, a tracciare il cammino del nostro o della nostra protagonista. Non a caso, molti adattamenti televisivi e/o cinematografici si sono rivelati un fiasco totale. The Last of Us rappresenta una piacevole e ben riuscita eccezione alla regola.
Nel caso degli anime, la diversità risiede soprattutto nell’ambito visivo e in quella cultura orientale che rischia di perdersi per adeguarsi a una cultura palesemente occidentale. Basti pensare al dimenticabile esempio del film di Dragon Ball o del non riuscitissimo I Cavalieri dello Zodiaco (arrivato qualche mese fa in sala). L’adattamento televisivo di One Piece, dunque, è stata un’enorme scommessa e non solo da un punto di vista economico. Si tratta di uno degli anime più famosi della storia, ad oggi arrivato a più di mille episodi e con un seguito di appassionati che tocca ogni parte del globo. Tutti pronti con il forcone in mano. Di fronte a certe altissime aspettative è ovvio che l’ansia da prestazione non tardi ad arrivare. La presenza di un colosso dello streaming come Netflix alle spalle non rappresenta necessariamente una carta vincente, poi. Perché se è vero che l’investimento economico diventa alquanto sostanzioso e in grado di coprire le necessità del caso, dall’altro il rischio che le interferenze produttive si facciano sentire ci sono eccome. La notizia della partecipazione in prima persona di Eiichirō Oda, papà del manga, ha risollevato il morale dei fan, il pubblico più difficile da accontentare.
Dopo un mese dall’uscita della prima stagione, è tempo di tirare le somme su questo live action di One Piece e sui suoi ambiziosi piani per il futuro.
Nonostante le diverse critiche che non sono tardate ad arrivare, soprattutto da parte di chi il proprio ruolo di fan lo prende un po’ troppo seriamente, il live action del famosissimo anime ha ottenuto un successo globale lasciando di stucco appassionati di lunga data e neofiti. La passione, la gioia e il desiderio di rendere omaggio ed essere fedeli a quell’ opera immensa che è One Piece sono tutte emozioni evidenti dal primo all’ultimo frame. Ed è proprio per merito di quella passione, che ha coinvolto sia il cast che la crew, se il live action di One Piece è riuscito a conquistare il nostro cuore. Traslare letteralmente il materiale originale in una serie tv era un’impresa rischiosa, soprattutto perché il pericolo più grande sarebbe stato quello di cadere nel facile copia-incolla. Ma data la natura diversa dei medium, il copia-incolla in questione sarebbe apparso come un collage cucito insieme alla bell’e meglio. Invece, pur rimanendo fedeli nello spirito alla creatura di Oda sensei, il live action di Netflix ha tracciato la propria rotta trovando un equilibrio tra identità personale ed eredità.
Sono state prese delle decisioni narrative, quindi, che hanno tolto o persino aggiunto degli elementi a questo One Piece 2.0, ma la sostanza è la stessa.
Uno dei più grandi pregi dello show è dato dai suoi protagonisti. Tutti i giovani interpreti della ciurma di Cappello di Paglia hanno messo cuore e anima nelle loro interpretazioni e si vede. Non mancano l’entusiasmo fanciullesco di Luffy, la fredda caparbietà di Zoro, il valore e il carisma di Sanji, il coraggio e la razionalità di Nami né l’umorismo contagioso di Usopp. Ogni interprete ha fatto suo il ruolo che gli era stato assegnato, calandosi perfettamente nei panni e aggiungendo un tocco personale che ha solamente arricchito il personaggio di partenza. Su tutti, merita una menzione d’onore il giovanissimo e talentuoso Iñaki Godoy, classe 2003. Con la sua esuberanza, la sua risata e la sua poliedricità ha veramente dato vita al personaggio di Monkey D. Rufy. Un compito difficilissimo al quale si è dedicato con tutta l’umiltà e la sensibilità possibile.
Dopo il successo globale, dunque, era abbastanza scontato che Netflix decidesse di rinnovare la serie per una seconda stagione. Una stagione che promette di entrare nel vivo delle avventure della ciurma di Luffy e che introdurrà il primo grande villain dell’anime così come anche un possibile nuovo membro per i nostri pirati: Chopper. Ecco quindi che già si para davanti un ostacolo non indifferente, ovvero come effettivamente creare il personaggio della renna umanoide, visto che, dal punto di vista degli effetti speciali e prostetici, i live action non sempre sono stati all’altezza. Sono iniziate anche le scommesse sui possibili casting con il nome di Jamie Lee Curtis in prima linea per il ruolo della dottoressa Kureha.
In una recente intervista, i creatori hanno parlato di voler proseguire il viaggio per altre dodici stagioni, ma si tratta di follia o ambizione giustificata? Il problema non è tanto riuscire a costruire una serie tv per un così lungo arco di tempo ma il contesto in cui si cerca di compiere questa impresa. La serialità contemporanea è molto diversa da quella di dieci o persino cinque anni fa. Se un tempo uno show che andasse avanti per dieci stagioni era un concetto plausibilissimo, oggi non è più così. Il pubblico si annoia, perde interesse con allarmante facilità e non crea più quel legame di fidelizzazione che costituiva il pilastro fondante delle serie tv del passato. Uno show di quindici stagioni come Supernatural, oggi sarebbe impensabile. La vera sfida per One Piece è allora quella di mantenere alta l’attenzione dello spettatore non solo nel lungo termine ma persino nell’immediato futuro. The Witcher, Shadow and Bone, The Mandalorian sono tutti validi esempi di come l’enorme successo di una prima stagione non rappresenti necessariamente il lasciapassare per un successo garantito anche negli anni a venire, a prescindere dalla qualità del prodotto. Ma prima ancora, One Piece dovrà affrontare il problema del cast, che nel corso di 10 stagioni (che, visti i ritmi di oggi, potrebbe richiedere anche una realizzazione lunga più di 15 anni) andrà inevitabilmente crescendo anagraficamente.
Cosa dovrà inventarsi allora questo live action di One Piece per poter durare effettivamente dieci stagioni se non di più?
Un piano ben definito ma anche una buona dose fortuna. Se, infatti, il primo elemento costituisce un’ottima base di partenza per costruire un progetto che sia coerente, efficace e fedele al materiale originale, il secondo elemento non è però da sottovalutare. Solo il tempo ma soprattutto la ricezione del pubblico potrà effettivamente sancire il successo del live action nel tempo. Il pubblico è una componente ormai troppo volubile, figlio di un’epoca in cui siamo costantemente bombardarti da impulsi frequenti e vari. Mantenere l’attenzione su un prodotto che ha anche bisogno di tempi tecnici per essere portato sul piccolo schermo è l’impresa più difficile di tutte. La vera fatica inizia adesso. Di certo, avere come asso nella manica nomi di alto calibro, una sceneggiatura forte e, lo ripetiamo nuovamente, un piano di produzione chiaro in mente aiuta moltissimo in questa missione così delicata. L’obiettivo deve essere chiaro in mente, proprio come il tesoro che i nostri pirati continuano a inseguire.