ATTENZIONE: non proseguite la lettura se non volete leggere spoiler su Orange is the new black
Potrebbe non essere così semplice spiegare il ruolo che Orange is the new black (qui potete recuperarla alla pagina dedicata Netflix) ha giocato all’interno del panorama degli appassionati di serie tv durante le sue prime stagioni. La serie, con protagonista Taylor Schilling nei panni di Piper Chapman, fu una delle prime di spessore prodotte da Netflix, ottenendo subito un ottimo riscontro di pubblico. Quando la piattaforma di Netflix venne lanciata anche in Italia nell’ottobre del 2015, il catalogo che ci trovammo di fronte era decisamente scarso se paragonato a quello attuale. Pochi film, poche serie tv, e persino tra quelle originali c’era una scarsa proposta. Oggi, possiamo fornirvi una lista delle migliori serie Netflix già ben più interessante.
Basta pensare che i diritti per la serie numero 1 di Netflix del tempo, House of Cards, erano già stati acquistati da Sky. Ecco dunque che Orange is the new black rappresentava il prodotto più gettonato e pubblicizzato all’interno di quel catalogo. Per coloro che già allora avevano una certa familiarità con il mondo delle serie tv, questo prodotto non era affatto sconosciuto. Sin dall’uscita aveva conquistato il pubblico e aveva fatto parlare molto di sé, in particolare grazie al suo incipit piuttosto originale: raccontare le vicende di un gruppo di donne all’interno di un carcere femminile.
Se di prodotti cinematografici ambientati all’interno di carceri maschili ne avevamo già visti in buona quantità, dai carceri di massima sicurezza americani a quelli terribili di Sağmalcılar, un luogo di detenzione per le donne era indubbiamente un elemento meno esplorato.
I primi episodi lasciavano per un attimo l’illusione che Piper non sarebbe rimasta a lungo all’interno di Licthfield. Il carcere sembrava troppo piccolo per ambientare un’intera serie all’interno delle sue mura, e i flashback incentrati su singoli personaggi difficilmente apparivano sufficienti come evasione. Inoltre, in un primo momento, preferire il marito all’ex fidanzata Alex sembrava la scelta migliore. Forse il volto dell’attore Jason Biggs, che tanti associavano a Jim di American Pie, convinceva il pubblico a parteggiare in particolar modo per lui, e la passata relazione con Alex presentava non poche ombre.
Eppure, episodio dopo episodio, lo spettatore si rendeva conto di quanto si stesse affezionando a molte detenute (e a qualche guardia) e che non sarebbe stato poi così male vedere un’intera serie svolgersi all’interno del penitenziario, anzi. Nel frattempo non ci si limitava a raccontare le vicende delle protagoniste, andando anche a scavare nel sistema penitenziario statunitense. Se nelle prime stagioni la critica era meno feroce, concentrandosi principalmente sulle vicende personali di Piper e compagne, in seguito si pone sempre più l’accento su cibo scaduto, guardie violente, abusi di ogni tipo, ecc.
Soprattutto dalla quarta stagione si scava sempre più all’interno di questo mondo, mostrandone i lati inquietanti e terribili in un’escalation costante.
Dalla quinta stagione l’apprezzamento del pubblico cala. La serie diventa feroce come prima non era mai stata sulla denuncia delle condizioni delle detenute. Le terribili conseguenze di un taglio ingente del budget della prigione avevano innescato una serie di eventi spaventosi, mentre nella narrazione delle vicende e della crescita delle detenute qualcosa si spezza. Un’intera stagione viene dedicata alla loro ribellione, per poi arrivare a una sesta nella quale bisogna salutare tante, forse troppe delle donne a cui ci eravamo affezionati. Queste vengono sostituite da nuovi personaggi che non riescono affatto a colmare il vuoto lasciato.
Soltanto nell’ultima stagione il pubblico torna ad apprezzare maggiormente la serie, arrivando a una conclusione coerente, ma anche terribilmente amara per alcune.
Non si lesina sull’attenzione dedicata alla vita che le detenute devono vivere all’interno di carceri di massima sicurezza, sulle difficoltà a rifarsi una vita al di fuori di quel contesto, sulla pericolosità di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti e sulle conseguenze di periodi trascorsi in cella di isolamento. Orange is the new black nelle ultime stagioni pone l’accento su tutto questo fino all’ultimo episodio, smettendo di indorare la pillola. I deboli non sempre riescono a cavarsela, a volte sono costretti ad alzare bandiera bianca contro potenti con cui non è possibile combattere ad armi pari. Per fortuna per alcune le cose si concludono in maniera meno drammatica. In particolare, in un breve ma emozionante momento in cui vengono mostrate tutte le detenute che avevamo salutato alla fine della quinta stagione, possiamo notare che per tutte loro le cose sono continuate relativamente bene.
La domanda che occorre porsi, a questo punto, non può che essere una. Cosa rimane oggi di Orange is the new black? Ma soprattutto, come è invecchiata?
La serie, nell’arco di qualche anno, è passata da essere una delle maggiormente consigliate, anche in virtù di una iniziale scarsità di titoli presenti nel catalogo Netflix, a essere un prodotto che oggi viene citato più di rado. Non si può dire che sia stata dimenticata, però è difficile non avere l’impressione che le venga riconosciuto meno di quanto meriterebbe. Non solo per il modo in cui descrive un carcere femminile e per tutte le denunce riportate in precedenza, ma anche per un forte progressismo che veniva manifestato sin dal primo episodio. Nel 2013 colpiva la naturalezza, la delicatezza con la quale venivano mostrate molteplici relazioni omosessuali tra donne, oltre ai numerosi rapporti sessuali all’interno di Licthfield e alla vita che veniva vissuta all’interno, ben lontana dai modi aggraziati imposti alle donne dalla società.
Come la vita all’interno del carcere di Rebibbia descritta da Goliarda Sapienza nell’Università di Rebibbia, qui le protagoniste possono comportarsi senza alcun filtro, senza dover rispondere a una società che pretende determinati comportamenti e determinati modi di apparire. Quando hanno la possibilità di non essere sotto gli occhi delle guardie (e solo in questi casi) le detenute sono, per certi versi, più libere in una prigione rispetto a quanto lo sono nel mondo esterno. Le prime stagioni mostravano tutto questo attraverso rapporti sinceri e una forte umanità.
Nel 2013 (o nel 2015 per chi cominciò la serie all’arrivo di Netflix in Italia) non era affatto usuale, e dopo un primo stupore di fronte alla sincerità schietta e rozza della descrizione della vita in prigione, ben presto ci si faceva l’abitudine per affezionarsi a Piper e compagne.
È difficile negare che un certo calo dalla quinta stagione in poi ci sia stato, raggiungendo il fondo con il terribile personaggio di Madison nella sesta. Eppure Piper, Alex, Red, Taystee, Gloria, Big Boo e tutte quante le detenute che abbiamo conosciuto nel corso delle 7 stagioni mantengono e manterranno sempre un posto nel cuore di chi questa serie l’ha seguita con passione.
Alla fine non rimaneva più molto da raccontare su tutte loro, forse si sarebbe persino potuta concludere un po’ prima, ma salutarle è stato ugualmente molto doloroso. Per alcune le vicende si sono concluse negativamente, e ripensarci può essere molto triste, ma questo non cancella tanti episodi in grado di umanizzare e di esplorare le loro storie, storie che non sono caratterizzate soltanto dai crimini che hanno commesso. Certe figure sono soltanto da condannare, ma per molte è importante scoprire il passato per scoprire quale vita, quale situazione le ha condotte a scelte sbagliate.
Non mancano casi anche di vere e proprie condanne ingiuste, spesso dettate da un razzismo molto forte presente all’interno del sistema giudiziario.
La serie merita ancora oggi di essere recuperata e di tornare a occupare il posto che le spetta. Non nell’olimpo delle serie tv, questo sarebbe eccessivo, ma tra quei prodotti ottimi con una parte di denuncia incredibilmente attuale. Quando, quasi 3 anni fa, uscirono i video della brutale morte di George Floyd, le somiglianze con la morte di Poussey risultarono purtroppo immediatamente evidenti.
Pochi altri prodotti sono riusciti allo stesso modo a raccontare la realtà senza cedere alla tentazione di indorare la pillola, mostrando quasi esclusivamente la parte dell’America debole, emarginata. Una popolazione composta da persone che spesso altrove sono protagoniste di storie nelle quali riescono a riscattarsi, a trovare il proprio posto nel mondo. In Orange is the new black, purtroppo, non tutte troveranno il loro posto, non avendo mai la possibilità di riscattarsi.
Ecco cosa rimane oggi di Orange is the new black, oltre alle risate e all’intrattenimento che le prime stagioni erano riuscite a regalarci. Una serie che, scegliendo una sua chiara cifra stilistica, dopo 10 anni non risulta invecchiata ma mantiene le stesse peculiarità e gli stessi punti di forza che l’hanno sempre contraddistinta. Sono ben poche le altre serie in grado di durare così a lungo mantenendo un simile apprezzamento senza mai perdere la propria voce. Per questo Orange is the new black lascia una grande eredità. Eredità che non vedrà miglioramento finché le condizioni all’interno delle carceri non miglioreranno sensibilmente e finché gli ultimi, le ultime, rimarranno senza alcuna possibilità di riscatto. Finché ciò non cambierà, la serie non invecchierà mai davvero, come abbiamo scritto qui.