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Our Flag Means Death, la recensione: tutto il genio di Taika Waititi

Our Flag Means Death
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Se qualcuno mesi fa mi avesse detto che avrei finito per apprezzare un prodotto cinematografico sulla pirateria, sarei stata quantomeno scettica. Ad essere onesti, la mia esperienza sul tema si limitava ad alcune visioni superficiali della saga I Pirati dei Caraibi e nulla di più. Eppure sono qui oggi a parlarvi di una delle serie tv che mi ha stupito maggiormente in positivo e che rappresenta probabilmente uno dei migliori prodotti dell’anno fino a questo momento. Ma andiamo con ordine (o, per rimanere in tema, leviamo l’ancora). La nostra recensione di Our Flag Means Death, ennesimo frutto di quel genio di Taika Waititi.

Our Flag Means Death

Alla cerimonia degli Oscar 2020, mentre il mondo è ancora pressoché ignaro della pandemia, Taika Waititi vince l’oscar come miglior sceneggiatura non originale per Jojo Rabbit. Il regista e sceneggiatore di origini neozelandesi è tra gli esempi più lampanti quando si parla di talento fuori dalle righe: in grado di affiancare un umorismo pungente alla trattazione di tematiche profonde, l’uomo è considerato uno dei nuovi pionieri del cinema negli ultimi anni. Non contento di aver sconvolto il mondo del cinema con la sua rappresentazione ironica e irriverente del nazismo, nel 2022 si lancia nella produzione di Our Flag Means Death. La serie, distribuita in America su HBO Max e ancora inedita in Italia, è composta da dieci episodi e dipinge un quadro estremamente romanzato della cosiddetta “età d’oro della pirateria”, quel periodo ad inizio Settecento dove le vie commerciali marittime in Inghilterra erano infestate dai pirati che depredavano le navi. La serie, restando parzialmente fedele storicamente, segue le vicende di Stede Bonnet (passato alla storia come il gentleman pirate), nobile inglese che, dopo aver deciso improvvisamente di abbandonare la sua famiglia, iniziò a viaggiare per mare per inseguire il suo sogno di diventare un pirata. L’uomo è ricordato dalla storiografia anche per la sua alleanza con il famoso e temibile pirata Barbanera.

Non aspettatevi uomini rozzi con una benda nera sull’occhio e un pappagallo sulla spalla, perché Our Flag Means Death è tutto tranne che questo; uno dei punti forti dello show è proprio la sua abilità di costruire una narrazione innovativa e coinvolgente prendendo qualsiasi stereotipo sul mondo dei pirati e ribaltandolo completamente. Con l’ironia e l’intelligenza che caratterizza la serie, noi spettatori ci ritroviamo ad assistere ad uno spettacolo grottesco dove la sensazione preponderante è quella di essere capitati lì per caso: Stede Bonnet (interpretato da un meraviglioso Rhys Darby) è un uomo tronfio, borioso, ridicolo eppure così tremendamente ingenuo e gentile da suscitare tenerezza fin dalla prima puntata. A questo bambino che gioca a fare il pirata viene affiancato quello che ha tutta l’aria di essere un cattivo da favola, il famigerato Barbanera: Taika Waititi si cala perfettamente nella parte e ci regala una delle performance migliori della sua carriera interpretando un uomo profondamente solo, dall’immensa complessità caratteriale e folle nella sua genialità. Scombinando tutte le carte possibili (sulla scia della sua rappresentazione di Hitler in Jojo Rabbit) Taika Waititi gioca continuamente sulla sottile differenza tra bene e male, facendoci fare il tifo per lui dalla prima all’ultima puntata.

Allo show ideato da David Jenkins va inoltre dato il merito di conferire un grande spazio di manovra ai personaggi secondari, le cui vicende finiscono per intrecciarsi più volte con la storia dei protagonisti: quella che dovrebbe essere un’inquietante compagnia di pirati assetati di sangue ci viene presentata come una sgangherata ciurma di disadattati, una serie di strambe e goffe figure con le quali è impossibile non empatizzare. Gli espedienti comici che i personaggi rappresentano all’interno dello show non sono solo puntuali, ma diventano fondamentali nell’avvicinare lo spettatore all’equipaggio della nave Revenge. Tra questi spiccano Lucius, l’unico a bordo in grado di leggere e scrivere e incaricato da Stede di redigere un diario di viaggio delle sue avventure (la sua storia d’amore con Black Pete, un altro marinaio, aggiunge un tocco di romantica semplicità alla narrazione); Jim, personaggio dall’umorismo pungente interpretato dall’attore non binario Vico Ortiz. E come dimenticare Mister Buttons, caratterizzato da una strana ossessione per i gabbiani (chi ha visto la serie si ricorderà di una delle scene più iconiche che lo vede come protagonista, dove l’uomo è intento a guardare la luna dal parapetto della nave completamente nudo). Anche coloro che dovrebbero essere gli antagonisti, la flotta navale della marina inglese, risulta talmente esagerata nella sua rappresentazione da risultare grottesca, l’ennesima parentesi comica all’interno di una narrazione che fa della parodia il suo punto di forza.

Tutto questo per avere un’idea generale di cosa significa approcciarsi a Our Flag Means Death, un bellissimo circo il cui intento principale sembra sia quello di divertire lo spettatore e non di affrontare tematiche significative.

Sembra, appunto. Perché Our Flag Means Death è in grado di far ridere nel modo più semplice possibile, ma soprattutto riesce dove tante serie prima di lei hanno fallito: rappresenta la comunità LGBTQ+ in maniera talmente delicata, veritiera e sincera da chiedersi da dove arrivi tutta questa difficoltà che sembra animare il cinema (qua potete trovare altre cinque serie tv che trattano del tema in maniera innovativa). Dimenticatevi la parola stereotipo: la storia d’amore tra Barbanera e Stede Bonnet più che un banale pretesto di trama diventa una finestra attraverso la quale raccontare l’amore nel modo più comune che esiste. Due uomini che si scoprono più simili di quanto credevano e, con tutta la delicatezza che l’ambientazione permette, si innamorano tra mille peripezie.

La scenografia e soprattutto la scelta della colonna sonora danno un contributo fondamentale alla riuscita dello show: le inquadrature spettacolari di mari sconfinati e isole deserte accompagnate da opere celebri dei Beach Boys, Lou Reed e i Fleetwood Mac non fanno altro che aumentare quel profondo senso di estraniazione che si prova guardando la serie. Questa, senza mai risultare pesante o ripetitiva, riesce a raccontarci con pochissime parole cosa significa abbandonare qualsiasi cosa per una vita diversa e, spesso, di solitudine. Fa ridere in quel modo tutto particolare che nasconde un singhiozzo e, soprattutto, ci ricorda una cosa molto importante: dietro alle grandi figure del passato c’è sempre, semplicemente, una persona. Ufficialmente la serie non è stata ancora rinnovata per una seconda stagione ma è proprio il caso di dirlo: noi ci speriamo con tutto il cuore. Perché la verità è che quando gli spettatori riescono ad immedesimarsi anche nelle figure più variegate e distanti, ci si deve per forza rendere conto di avere davanti un prodotto straordinario.

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