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Oz è una lezione di filosofia proiettata in una dimensione onirica

Oz
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A Dorothy Gale basta battere tre volte le scarpette rosse scintillanti per tornare nell’amorevole fattoria degli zii, andandosene così da quella Emerald City piena di streghe malvage che vogliono ucciderla, perfide scimmie volanti e spaventosi orsi con la testa di tigre. Non è destinata a rimanere in quel luogo fantastico al di là dell’arcobaleno, a differenza dei detenuti del quinto braccio del penitenziario di Oz; a loro le scarpette magiche dei desideri non sono concesse, né hanno amici fedeli su cui contare. O meglio, c’è una sorta di Mago, Tim McManus, l’unico a credere nella possibilità di rieducare anche i criminali più pericolosi. Attraverso il lavoro, la socializzazione, il tempo passato nella sala comune, le sedute psicologiche e i gruppi di sostegno, pensa davvero di far uscire dai carcerati le virtù che hanno al loro interno o che, lungo il viaggio dentro la Città di Smeraldo, possono aver sviluppato.

Ma nell’Emerald City di Oz (in italiano, il Paradiso) non viene messa in scena una favola a lieto fine. È la storia dove a vincere è la Malvagia Strega dell’Ovest.

Una vera e propria discesa agli inferi in un luogo isolato dalla realtà, come se fosse una dimensione parallela in cui non vorremmo mai entrare, perché in perenne stato di guerra, piena di sofferenze al limite della sopportazione umana e nel quale si può morire in mille terribili modi diversi. Varcare quelle porte è come buttarsi a capofitto nel Vaso di Pandora; lì dove sono contenuti tutti i mali dell’universo e in cui a dominare sono la lotta tra fazioni, la droga, l’oppressione in ogni sua forma, la violenza fisica e psicologica come strumento di potere. E mantenerne i delicati equilibri è una missione impossibile, tanto che i bagni di sangue sono all’ordine del giorno. Non è un caso che la sintesi di Oz è in quella tagline ironica che richiama, ancora un volta, i libri di Baum:

“It’s no place like home”

Oz

In quel braccio dimenticato dal mondo, in cui pure noi rimaniamo imprigionati perché le telecamere dello show HBO non lo lasciano mai, è Augustus Hill a guidarci lungo il sentiero non più dorato, ma di un grigio opprimente colorato da spruzzi di rosso sangue.

Estraneo alla roulette russa della prigione, invisibile sia per scelta che per la sua disabilità, Hill è il narratore perfetto. Fuori campo ma non troppo, prima osserva e poi, rompendo la quarta parete, ci racconta la vita a Emerald City, la paura, l’odio, il dolore, l’amore e le poche gioie di quelle anime perse. Ci coinvolge nella profonda filosofia che si nasconde nelle storie di ognuno di loro, durante scene in cui tutto si ferma e l’atmosfera è resa ancor più onirica da questo cubo rotante, simile agli acquari in cui sono chiusi i detenuti, al centro del quale il personaggio di Harold Perrineau declama i suoi provocatori monologhi. Grazie alle battute ironiche, alle sfuriate, alle massime scandite a tempo di rap, come fosse un Amleto shakespereano, veniamo portati a riflettere su immagini che, altrimenti, sarebbero solo didascaliche, sulla follia del mondo carcerario, sulle relazioni in Oz.

La serie HBO e l’Hill di Harold Perrineau aprono uno squarcio nel ventre oscuro del sogno americano, discutendo sull’ingiustizia di certi provvedimenti, del razzismo di altri (come la cosiddetta “guerra alla droga”), delle condizioni delle carceri. Ponendosi mille domande: i detenuti sono stati traditi dalla società o sono loro ad aver fallito? Nell’interesse di chi funziona davvero il sistema carcerario? La pena di morte è moralmente difendibile? Qualcuno – guardia o prigioniero che sia – può mantenere la propria umanità in prigione?

Ed è attraverso i detenuti che Oz prova a dare a delle risposte, consapevole che non sempre arriveranno e senza mai davvero usare la moralità come metro di accettazione dei personaggi (o delle loro azioni).

Harrold Pennau è Augustus Hill

Kareem Said (una sorta di alter-ego di McManus) è l’idealismo che incontra l’estremismo; la lotta instancabile verso un sistema corrotto, che l’avrebbe fatto uscire di prigione non tanto per il lavoro svolto dietro le sbarre o la fine della pena, quanto per trame politiche e per l’influenza esterna che lo voleva libero. Lui è l’unico che ha davvero avuto la possibilità di andarsene da Emerald City, impugnando le scarpette rosse personificate nella grazia del governatore. Miguel Alvarez, infatti, non ce l’avrebbe mai fatta. Nemmeno quando, dopo il gesto più terribile della serie e la distruzione psicologica data dall’isolamento, inizia a rigare dritto, sta fuori dagli affari illegali del Paradiso, addestra il cane da donare all’uomo a cui ha tolto la vista, dirige lo spettacolo finale.

Alvarez è il destino che ormai è stato scritto e, pur provandoci strenuamente, non può cambiarlo. Non può sfuggire alle sbarre, come Tobias Beecher, che il mago Said prova più volte ad aiutare. Invano.

Beecher è colui che perde sé stesso quando il suo privilegio viene ribaltato. Debole e spaventato, soccombe al padrone Schillinger, che lo chiude nella sua personalissima prigione e lo costringe a essere il suo schiavo, stuprandolo ripetutamente e marchiandolo come un animale. Che è ciò che diventa quando, raggiunto il limite della sopportazione, strappa il guinzaglio e si ribella al padrone, cedendo alla legge della violenza e della criminalità di Oz. Uno Schillinger che rappresenta l’odio che domina completamente un essere umano, rendendolo cieco e folle. E la loro relazione si diffonderà come un cancro che corrompe ogni cosa, distruggendo le loro famiglie, annientando l’unica via d’uscita che Beecher aveva trovato: l’amore (tossico e malsano) di Chris Keller.

Quel sentimento che Said tenta con tutte le forze di diffondere a Oz, lottando con il razzismo, la discriminazione, le pulsioni deviate, la rabbia che ribolle in lui. Ma non riesce a salvare nessuno, tantomeno Simon Adebisi. Quest’ultimo è l’instabilità dello status quo che deve essere mantenuto con ogni mezzo, compreso l’uso della violenza più efferata, o l’accusa è di tradimento.

Oz

Lo vediamo con Kenny Wangler, un adolescente al quale McManus dà una possibilità mediante l’istruzione. Gli insegna a leggere, gli dà un libro per fare pratica. E che fa Adebisi? Lo usa per nasconderci la droga. In questo modo riduce le infinite possibilità del ragazzo a una soltanto: un’esistenza sprecata nella droga e nella criminalità. Facendoci provare pietà per il giovane, perché per lui non era troppo tardi. Il suo regno da malvagia strega dell’Ovest, però, finisce presto e sarà proprio Said, trasformatosi in una Dorothy da film horror spaventoso, a metterci un punto, dopo aver capito che quell’uomo, consumato dall’odio, dal potere e dal razzismo, è un demone irrecuperabile. È una della sue ultime sconfitte: infatti, andrà incontro a un destino tragico, lasciandoci nel dubbio se quella è la prova dell’inconoscibilità del piano divino o se è il caos che ha preso il sopravvento in un mondo senza Dio.

Said prova a sovvertire le regole di Emerald City Adebisi le aveva capite, ma solo Ryan O’Reily riesce a piegarle al suo volere, muovendo gli altri detenuti come burattini sul palco.

Le sue azioni sono così precise e devastanti che hanno effetti anche nel mondo reale, trascinando però nella sua vendetta contro una società che l’ha abbandonato anche l’amato fratello, Cyril, e la donna che ama, Gloria. E il karma non si farà attendere, presentando il conto nella straziante fine di Cyril, il suo più grande fallimento e la rappresentazione dell’ingiusto trattamento di prigionieri con bisogni speciali, completamente abbandonati a loro stessi.  

Del resto, la crudezza di Oz non fa distinzioni, trasformando tutti in numeri su un taccuino o animali pronti a macellarsi tra di loro. Lo sa bene il nostro narratore, l’Hill di Harold Perrineau, che non ha nemmeno la possibilità di arrivare alla fine di questa serie HBO da vedere assolutamente. Lì dove Emerald City viene avvelenata e i detenuti riescono finalmente ad approdare nel mondo reale. Consapevoli però, come noi, che quelle celle vuote li accoglieranno nuovamente. Perché da quell’universo fantastico non si può scappare con nessuna scarpetta o artificio magico, se non danzando nel gelido e freddo abbraccio della morte.