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Oz – Niente è mai stato più lo stesso

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Nel 1997 nasceva Google. Sempre nel 1997 veniva pubblicato per la prima volta Harry Potter. Lo stesso anno uscivano nelle sale cinematografiche Titanic e Jurassic Park. Michael Jackson era ospite ai Telegatti e in quell’anno venivano a mancare Madre Teresa e Lady Diana. A Monaco di Baviera il Borussia Dortmund vinceva la Champions League battendo 3 a 1 la Juventus. Questa carrellata è necessaria per dare un’idea più precisa di com’era il mondo nel 1997. Bene, ora che abbiamo chiaro d’innanzi agli occhi lo scenario di cui stiamo parlando, immaginiamo quale fosse il panorama della serialità televisiva del tempo: E.R., Beverly Hills 90210, X-Files e Friends erano il meglio che si potesse trovare. In tutto questo erompe Oz.

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Oz è la prima produzione originale HBO. Oz è il terremoto che spazza via tutto il mondo delle serie tv conosciuto fino ad allora e pone le fondamenta per permettere la produzione di quello che oggi amiamo. I SopranoThe Wire, Dexter o Breaking Bad? Tutte queste, in un modo o nell’altro, pagano il loro tributo a Oz.

Era dai tempi di Twin Peaks che non avveniva uno scossone di tale portata nella televisione. Oz rompe ogni schema. Viola (letteralmente) ogni porta del lecito per sdoganare temi, personaggi e dinamiche fino ad allora sconosciute sul piccolo schermo. Porta il cinema nelle serie tv. Per rendere l’idea, ci si deve riferire a Oz come innovatore di tematiche nella serialità televisiva allo stesso modo in cui nel cinema si fa riferimento a titoli quali Arancia Meccanica o Qualcuno volò sul nido del cuculo.

Violenza, guerre tra bande, omicidi efferati, stupri, ricatti sono solo alcuni degli elementi che vengono affrontati e mostrati all’interno del Oswald State Penitentiary, in arte “Oz”. Anche il tema della privacy è sdoganato con anni d’anticipo.

Infatti nel “Paradiso”, il braccio più pericoloso del carcere, vigono regole non scritte tra i detenuti che tutti sono comunque tenuti a rispettare. Nel “Paradiso” le celle sono in plexiglas e ognuno vede tutto, finché non è meglio non vedere.

Nel 1997 tutto questo era una rivoluzione. Un atto di coraggio televisivo che ha cambiato e stravolto per sempre le serie tv. A questo scenario sconvolgente si aggiungono una pletora di attori che muovendo i loro primi passi in Oz sono divenuti negli anni successivi vere e proprie star delle più importanti serie tv trasmesse.

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Eppure non è di questo aspetto che oggi ci apprestiamo a parlare. Perché, seppur di questi meriti Oz si sia ammantato facendo scuola all’odierna serialità, c’è un elemento che invece è caratteristica pressoché unica di questa straordinaria serie tv: la rottura della quarta parete.

Vi è infatti un elemento ricorrente per tutte le stagioni che ritroviamo solo qui. Uno dei detenuti, Augustus Hill, magistralmente interpretato da Harold Perrineau, assolve alla funzione di narratore. Durante i singoli episodi lo possiamo vedere e sentire mentre ci presenta i singoli carcerati che, di volta in volta, ricoprono un ruolo rilevante all’interno dell’episodio. Oltre a questo, poi, ci delizia con massime e considerazioni su ciò che sta avvenendo e più in generale sul sistema carcerario e sulla vita.

Questi momenti avvengono in modo straordinario. La narrazione infatti subisce una sospensione e vediamo Augustus, sulla sua sedia a rotelle, all’interno di una sorta di gabbia trasparente, inquadrato in primo piano, o in alternativa solo lui a sfondo nero, in un gioco di movimenti di camera e rotazione del personaggio. Lo sentiamo quindi raccontare (al limite del cantato rap o hip hop nella versione originale) come se tutta la scena fosse temporaneamente in pausa, sospesa.

Augustus si rivolge direttamente al pubblico uscendo da ogni dinamica narrativa e drammaturgica rispetto a quello che sta avvenendo. E lo fa con dei meccanismi che non si erano mai visti prima nelle serie tv, ma hanno il proprio retaggio nel cinema e ancor di più nel teatro.

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Ci troviamo di fronte a un narratore interno, cioè un narratore che al tempo stesso è protagonista degli eventi e legato a essi. Questa tipologia di narrazione pesca le sue radici nel teatro classico greco e giunge fino a noi passando per i più illustri drammaturghi occidentali. Ma non è solo questo.

La magistrale sapienza con la quale vengono confezionati e inseriti questi intervalli narrativi assolve alla duplice funzione di narrazione, come abbiamo appena spiegato, e di soluzione di continuità rispetto alla tensione drammaturgica. Gli interventi di Augustus avvengono sempre nel momento di massima tensione visiva o narrativa. Ricordiamoci che siamo nel 1997 e nulla di quello che mostra Oz si era mai visto prima. Lo spettatore non è ancora pronto a questa tensione costante e continua. Ecco dunque che, quando la curva drammatica sta per raggiungere il suo apice e virtualmente lo spettatore potrebbe distogliere lo sguardo, appare Augustus.

Con il suo parlato scanzonato e irriverente letteralmente fa rifiatare il pubblico. Lo fa però senza, e qui grande merito alla scrittura e alla prova attorale, rinunciare mai alla qualità drammaturgica. I suoi interventi, soprattutto le massime, hanno la forza descrittiva e la profondità filosofica che lo spettatore abbisogna in quel momento.

Augustus si spiega e ci spiega qualcosa che ci aiuta a riflettere più delle immagini, che risulterebbero didascaliche, l’assoluta follia del mondo. Sì, quello carcerario, ma più in generale del mondo rispetto alle relazioni umane, sublimato nelle sue declinazioni peggiori all’interno di Oz.

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Questa scelta coraggiosa da parte degli autori di Oz sembra, seppure con motivazioni diverse, sposare in pieno le ragioni che portarono all’inizio del secolo scorso il drammaturgo austriaco Bertolt Brecht a sviluppare all’interno della sua concezione di “teatro epico” la rottura della quarta parete. Bertolt Brecht, infatti, introdusse deliberatamente la rottura della quarta parete al fine di incoraggiare il pubblico a un atteggiamento più critico rispetto a ciò che stava guardando. Anche Augustus fa ciò. Lo vediamo quasi come l’Amleto di Shakespeare che invita il lettore a riflette e non fermarsi alla superficie.

Ma lo fa con sapienza nei momenti opportuni. Lo fa come una pausa nella narrazione quando di una pausa c’è più bisogno.

La grande lezione di Oz è proprio questa: si può sospendere la tensione narrativa senza rinunciare alla qualità e profondità della drammaticità. Una lezione che purtroppo a oggi ancora non è stata interiorizzata nella successiva produzione seriale. Nonostante le grandi serie tv prodotte nei vent’anni trascorsi dalla messa in onda del primo episodio di Oz, ancora vediamo affidata a semplici cambi scena o peggio ancora a momenti comici, la rottura della tensione narrativa. Nei casi migliori, là dove la scrittura della serie e l’interpretazione degli attori è altissima, vedi Breaking Bad, si sceglie di portare questa tensione fino al suo apice e di risolverla senza soluzione di continuità.

Ma la strada percorsa da Oz è ancora, almeno per questo aspetto, non sfruttata. Una strada che permetterebbe delle opportunità nuove e delle scelte narrative ancora più coraggiose. Possiamo solo sperare che, come nelle tante strade battute da Oz che poi sono state scuola per capolavori successivi, anche questo straordinario aspetto venga presto riproposto. Magari rielaborato così come tanto è già stato fatto, partendo da questa superba pietra miliare della tv che è Oz.

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