ATTENZIONE: proseguendo nella lettura dell’articolo potreste imbattervi in spoiler sulla quarta stagione di Ozark.
Seppellisci, dimentica, con una buona azione dopo l’altra. La macchina da soldi dei Byrde pulisce qualsiasi cosa, eccetto le macchie interiori. Quelle non le lava via niente, restano attaccate addosso come un marchio, un’impronta, una screziatura che non va più via. Si possono solo seppellire, dimenticare, silenziare. Si può solo evitare di farle riaffiorare a galla. La prima parte della stagione conclusiva di Ozark è disponibile dal 21 gennaio su Netflix. Sette episodi prima del grande rush finale, di cui il flash forward di apertura ci ha forse già anticipato qualcosa. Un trampolino di lancio verso la consacrazione definitiva. E che trampolino. Ozark si conferma una serie in crescita costante, capace di trascinare lo spettatore nella sua spirale cupa e impetuosa, turbandolo e impressionandolo con una scrittura sempre ben affilata, mai floscia e convenzionale, mai insipida, grossolana o abusata. Non era facile mantenere uno standard di qualità così alto dopo gli episodi della terza stagione (qui potete recuperarne la recensione), così intessuti di suspense, di tensione emotiva, di quel coinvolgimento totalizzante che non è semplice replicare e da cui ci si riprende a fatica. La morte di Ben, lo sfaldamento interiore di alcuni personaggi, le mutate dinamiche all’interno della serie, avevano creato tutti i presupposti per una stagione davvero coraggiosa, che poteva essere quella dell’investitura definitiva ma anche della profanazione e della delusione.
La prima parte del quarto (e definitivo) capitolo di Ozark rappresenta una fase di transizione verso l’epilogo finale, ma potrebbe funzionare anche come stagione a sé stante.
L’obiettivo si fa sempre più contorto e macchinoso e per i Byrde uscire dal pantano sembra davvero un’utopia. Se all’inizio era sufficiente riciclare il denaro del cartello, ora l’asticella delle difficoltà si alza ancora di una spanna: non basta più pulire i soldi, bisogna pulire le persone, la loro identità pubblica. Omar Navarro, uno dei più potenti boss del narcotraffico internazionale, vuole andare in pensione e lasciare l’impero ai suoi eredi, possibilmente senza farsi un giorno di galera e con un lasciapassare che gli permetta di spostarsi quando e come vuole dal Messico agli Stati Uniti. È questa la ragione per cui ha tenuto in vita Marty e Wendy e ha fatto saltare invece la testa a Helen Pierce. La missione è comunque veramente proibitiva, le possibilità di successo pressoché nulle, ma non importa. Ozark non dà nemmeno il tempo di pensarci, di ponderare le diverse opzioni, di tentare di individuare la strategia giusta in mezzo a tutto quell’intrico di vie che conducono inevitabilmente al fallimento.
Ozark accelera, come sempre. È una corsa folle verso la libertà, che può essere allo stesso tempo inseguimento spasmodico o fuga angosciante. Le complicazioni lungo il tragitto vanno schivate una dopo l’altra.
L’universo dei Byrde sta implodendo, il loro nucleo familiare galleggia a stento tra risentimenti, incrinature, scissioni e contrasti apparentemente insanabili. Se per tre stagioni la finzione borghese aveva tutto sommato funzionato e la fragile impalcatura sembrava reggere, ora le crepe iniziano ad allargarsi sempre di più e l’immagine riflessa nello specchio della perfetta famiglia media americana, restituisce indietro tutte le menzogne e le ipocrisie dalle quali avevano tentato, seppur con scarsi risultati, di mettersi al riparo. Il personaggio di Jonah porta ad uno stadio più avanzato la propria evoluzione. Rabbia e ostilità covate per troppo tempo vengono finalmente a galla. La sua ribellione è quasi la conseguenza naturale del progredire degli eventi: l’amore per Ben è la capsula di innesco del rancore già segretamente annidato in un ambiente familiare deviante e surreale. Mentre il personaggio di Charlotte – che aveva vissuto la sua forma di ribellione nelle stagioni precedenti – risulta quello più schiacciato e meno efficace di tutta la serie, quello di Jonah riesce invece a dare qualcosa in più all’evoluzione della trama.
La scrittura dei personaggi è d’altronde uno dei grandi pregi di Ozark. La partenza di Janet McTeer non si lascia rimpiangere. Al suo posto, prendono possesso della scena due new entry: una – quella di Mel Sattem (Adam Rothenberg), l’investigatore privato ingaggiato dal marito di Helen per trovare la moglie scomparsa – un po’ più defilata, ma che certamente avrà un ruolo più centrale nella parte finale; l’altra – quella di Javi Elizonndro (Alfonso Herrera), nipote di Navarro – già piuttosto dominante sin dalle primissime battute. Javi, in particolare, rappresenta quell’elemento destabilizzante in grado di rompere ulteriormente gli equilibri e destrutturare l’apparente stabilità della trama. Criminale di nuova generazione, laureato e uomo di mondo, il nipote di Navarro diventa il nuovo grande villain con cui fare i conti, imprevedibile e totalmente fuori controllo.
Ma se la struttura dei nuovi personaggi sembra tutto sommato ordinaria e forse persino tipizzata, è con le presenze fisse del cast che Ozark riesce sempre a superarsi.
In questa stagione, lo scontro tra Ruth e Wendy, i due personaggi femminili più forti – da non dimenticare però la solita Darlene Snell sullo sfondo -, raggiunge un apice finora ancora inesplorato. La prova di Laura Linney e Julia Garner è, al solito, magistrale. Ruth acquisisce sempre maggiore consapevolezza, si mette in proprio e diventa una possibile minaccia per i traffici dei Byrde. È cresciuta al punto da capire che l’unica via per ricominciare è quella di uscire da una vita incasinata e provare a costruirne un’altra lontano da Ozark. Ma sarà la spirale inarrestabile di sangue a cambiare il corso degli eventi e a trascinarla di nuovo sul fondo. Wendy è invece un personaggio che ha risvegliato il suo lato più oscuro, alimentato giorno dopo giorno dalla sua insaziabile sete di potere. Tra i coniugi Byrde, quella che faticherà a fare fronte comune per riacquisire la libertà e allontanarsi da quel mondo criminale sarà proprio Wendy, che ha liberato definitivamente la sua anima nera e si è calata perfettamente nelle dinamiche di potere di un’America corrotta e bramosa.
Con Wendy e Ruth si scontrano due modi di pensiero diversi, due generazioni diverse, due background culturali diversi: Ruth è l’anima selvaggia e impetuosa di Ozark, rappresenta le sue radici malate e corrose; Wendy è invece la lunga mano borghese che si insedia e colonizza terre fertili e inesplorate, con quel volto sempre pulito che allontanerebbe da sé qualsiasi sospetto.
In questo quadro si inserisce Marty (Jason Bateman), mediatore passivo e trascinato dagli eventi. Se le prime stagioni avevano focalizzato l’attenzione sul suo personaggio, inevitabilmente centrale nelle dinamiche della storia, ora la lente si è spostata sulla coppia Marty-Wendy, sulla loro collaborazione, sulla loro piccola associazione a delinquere. Ma mentre Marty si sporca le mani per tirare tutti fuori dai guai, le motivazioni che spingono Wendy ad agire sono più oscure e fameliche. Questo dualismo è percepibile, ma mai ingombrante. L’armonia – e la disarmonia – tra i due protagonisti fa leva sulle debolezze e sui punti di forza di ognuno. Quel ti amo sussurrato di sfuggita mentre ci si prepara ad uscire per consegnare un boss ai federali, quel gesto ordinario che sembra rubato a una normalità ormai perduta, racconta meglio di qualsiasi altra cosa lo sconquasso nelle vite dei Byrde, il disordine, il turbamento, il vuoto che ciascuno ha provato a riempire a modo suo. Tutto è partito da una grande finzione, dall’illusione di una felicità che era in realtà fittizia, apparente, da quell’ufficio assolato all’ultimo piano di un grattacielo immerso nel cuore pulsante di Chicago. Il sogno americano è un inganno, Ozark riesce a sbattertelo in faccia come poche altre opere televisive attualmente in circolazione.
Il plot twist finale è degno dei migliori season finale, anche se non chiude propriamente una stagione. Nel corso di questi sette episodi, non sono mancate violenza e colpi di scena, bruschi e sconcertanti come quelli a cui la serie ci aveva abituati. La morte di Darlene Snell e Wyatt Langmore, con tutte le conseguenze del caso, spiana la strada a un capitolo finale che ha tutte le potenzialità per consegnare definitivamente a Ozark il titolo di capolavoro. Sappiamo che non finirà bene, il lieto fine è un’altra grande menzogna alla quale proviamo ad aggrapparci senza troppa convinzione. Il flash forward con cui si apre il primo episodio ci lascia inermi e impazienti, avvinghiati al ciglio di quella strada dove la macchina dei Byrde è schizzata in aria e si è capovolta. Sono vivi? Sarà morto qualcuno? Non ci resta che aspettare la seconda parte di questa straordinaria, adrenalinica quarta stagione.
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