Esistono delle case che sembrano fatte apposta per viverci dentro. E per viverci felici. Quelle case dai colori tenui, accoglienti, con la staccionata in legno, il giardino curato e il cane che scodinzola sulla porta. Ecco, se Marty Byrde fosse una casa sarebbe proprio quel genere di casa lì. La villetta familiare con la facciata in ordine, la cassetta della posta ritinteggiata di nuovo e il vialetto d’ingresso sempre pulito. Quelle case che, di tanto in tanto, si vedono anche a Ozark, un luogo che sulle apparenze disegna cartoline da smerciare per dare di sé l’immagine di un posto in cui sarebbe bello vivere.
Marty Byrde ci si è ritrovato per caso a Ozark, nel cuore del Missouri. Il suo è un volto che starebbe bene sui marciapiedi affollati di Chicago. Col giornale sotto il braccio, la ventiquattrore stretta in pugno, caffè lungo nel bicchiere e auricolare nell’orecchio. Marty è il volto pulito del sogno americano silenzioso, quello che macina passi negli uffici mettendo insieme numeri. Sembra essere costruito apposta per quelle stanze di vetro dell’ultimo piano, con vista spaziosa sulla città e viavai di gente in giacca e cravatta.
E invece Marty ha finito per insozzarsi le mani del fango e della sporcizia del Missouri. Il Midwest, il cuore duro e scuro d’America.
Ma partiamo dall’inizio. Marty è un consulente finanziario di Chicago. Un lavoro niente male, stipendio gratificante, buoni clienti. Una moglie che lo aspetta con la cena pronta a casa, due figli che qualche volta litigano tra loro, i documentari in tv. Niente di esaltante, tutto molto ordinario. È il classico uomo qualunque che si è ritagliato un pezzo di vita normale nell’America del successo facile. Un buon padre di famiglia, un marito che salva le apparenze. La prima cosa che colpisce di Marty Byrde è la sua calma piatta. La stessa con la quale riesce a guardare il porno amatoriale in cui sua moglie si lascia toccare da un altro uomo. Impassibilità e autocontrollo sono l’elemento distintivo di questo personaggio.
Ma Ozark cala subito la maschera e ci offre il suo volto spiazzante, crudo. Implacabile.
Marty Byrde finisce in ginocchio con una pistola puntata alla testa. L’impiegato uniforme e uggioso deve fare i conti con il mondo scellerato e senza scrupoli in cui si è invischiato. Un mondo dalle pallottole facili, che regola i conti col piombo e con il sangue. Un mondo nel quale nessuno scommetterebbe un centesimo sulla sopravvivenza di Marty Byrde. E invece, è proprio in questo mondo efferato e crudele che Marty riesce a destreggiarsi alla perfezione.
Quando si arriva a Ozark la prima immagine che colpisce è quella del lago. Blu, come il fondo di un incubo senza via d’uscita. Agghiacciante e freddo, avvolto da una nebbia fitta che nasconde i segreti più indicibili. E Marty in quel paesaggio trova l’espressione più intima di se stesso. I suoi occhi riflettono la consistenza delle acque di Ozark, all’apparenza calme e piatte, ma sotto le quali si agita tutto un mondo sommerso e in parte sconosciuto.
Assistiamo all’epopea dell’uomo qualunque che si invischia col male e non sa più come uscirne.
Ma Ozark ci dà pure qualcosa di diverso. Perché la mente criminale di Marty non è come quella di Walter White in Breaking Bad, per quanto i due personaggi siano accomunati da un destino simile. Marty ha cercato una scorciatoia, una via facile per abbracciare il successo e avvolgersi nelle rassicuranti coperte del sogno americano. Ma le scorciatoie hanno un prezzo e talvolta pagarlo può costare parecchio.
Marty non è The Danger, o almeno non aspira ad esserlo. Lui obbedisce agli ordini per non finire ammazzato insieme alla sua famiglia. Il problema è che è dannatamente bravo a fare quello che fa. Così bravo da riuscire a mettere le mani su Ozark, fagocitando imprese criminali locali, faccendieri, mafiosi, business illegali già esistenti. Più che The Danger, Marty Byrde è The Solution. Anche quando sembra volersi defilare, quando il lato oscuro di Wendy prende il sopravvento e lo lascia nell’ombra. La mente di Marty non contempla le ombre. Analizza, scompone, approfondisce, osserva. La sua forza sta nella sua capacità di autocontrollo, nel suo essere lucidamente padrone della situazione anche quando non lo è.
Marty Byrde è la superficie piatta che inganna. Sotto, nel fondo, c’è sempre qualcosa che scalpita.
È un personaggio come tanti in Ozark (avete già letto la recensione della terza stagione?), costantemente in bilico tra la scelleratezza delle proprie azioni e tutta la miserabile umanità dei propri impulsi emotivi. Ma è anche quello che più riesce a rimanere fedele a se stesso, malgrado tutto. Non si fa assorbire da quel mondo, come Wendy. Non si lascia consumare. Riesce a rimanere lucido, distaccato. Abituato a risolvere i problemi, ad essere la soluzione.
Nessuno avrebbe scommesso che dietro la facciata del bel villino di famiglia potesse nascondersi un mondo torbido e caotico. Nessuno avrebbe scommesso che Marty, il ragazzino che passava ore e ore davanti ai videogiochi, potesse sopravvivere con le unghie e con i denti in una realtà malvagia e implacabile. E invece, l’uomo silenzioso ha imposto la propria voce. Con ponderazione, ragionevolezza e perseveranza. Ha vinto la sua battaglia, è sopravvissuto e ha ancora tanto da dire.
E stavolta c’è da scommettere che, alla fine dei giochi, quello a rimanere in piedi sarà proprio lui.